Lampedusa: quei morti ci chiedono chi siamo

par Daniel di Schuler
lunedì 7 ottobre 2013

Quanti saranno alla fine? Due, trecento? Stanno ancora ripescando i loro cadaveri e c’è da scommettere che prima che abbiano finito di farlo ci saremo già dimenticati di loro. La notizia è già vecchia, tra un paio di giorni al massimo non se ne parlerà più.

Peccato. Per noi, non per loro. Non risponderemo alla domanda che la loro morte ci ha posto e continueremo a restarcene sugli spalti della nostra fortezza, mentre i colpi d’ariete della storia ne sbriciolano le mura.

Versata la lacrimuccia di circostanza, espresso il doveroso cordoglio, sfuggiremo un’altra volta alle nostre responsabilità; non ci diremo che cosa vogliamo essere, noi italiani ed europei e, cosa vogliamo che siano l’Italia e l’Europa.

Se fossimo fedeli a noi stessi, a quelle radici cui anche la nostra peggior politica fa sempre riferimento, il corso delle nostre azioni dovrebbe essere obbligato. Se la vita umana per noi fosse ancora sacra, o meglio se finalmente lo diventasse, dovremmo guidare il mondo verso una nuova formulazione dei diritti dell’uomo; verso il completamento di quel programma rinascimentale ed illuministico che è la nostra vera patria: l’ereditá dei nostri padri ed il nostro tratto unitario.

Diritti dell’uomo in quanto tale, in quanto membro della nostra specie, che cinque secoli dopo Grozio e Francisco De Vitoria, ancora riduciamo ai diritti del cittadino, condizionati al possesso di un passaporto e soggetti alle convenzioni tra gli stati.

Superare queste limitazioni, arrivare a difendere, oltre che affermare, il diritto alla vita ed alla libertà (inclusa, e ci mancherebbe, quella di spostamento) per tutti gli esseri umani, ci richiederebbe una cambio di paradigma; ci imporrebbe di passare da una politica della convenienza ad una politica della giustizia.

Idealismo? No. L’unica salvezza. Quel che conviene oggi non conviene domani; si fanno forse gli affari, guardando al minuto tornaconto, ma non si prendono decisioni di portata storica per interi popoli. Per quelle, molto meglio pensare a quel che è giusto e che sarà giusto per secoli e millenni; a ciò che, per dare all’etica un significato “biologico”, si è dimostrato conveniente per l’umanità.

Del tutto privo di realismo, piuttosto, chi spera di poter resistere arroccandosi. Gli Stati Uniti, con tutti i loro sforzi, non sono mai riusciti a frenare l’immigrazione messicana. In Italia, si stimava tre anni fa che giungesse via mare il 5% degli irregolari. Gli altri? Arrivavano con l’aereo, in auto o in treno e, semplicemente, si “dimenticavano” di andarsene quando il loro visto era scaduto. I fili spinati, metaforici e reali, insomma servono a poco o nulla: sono costosi stracci sventolati dai politicanti per attrarre i voti di elettorati spaventati ad arte.

Una paura che nasce dalla sfiducia in noi stessi. Nella nostra capacità di assimilare chi arriva da noi; nella nostra possibilità di crescita economica. In una parola, nel futuro.

Alla fine la questione si riduce a questo: vogliamo ancora essere europei o diventare altro?

Vogliamo pensare di poter ancora essere una faro di civiltà e di poter continuare a progredire, con la forza dei nostri continui dubbi e della nostra insaziabile curiosità, o decidiamo che siamo finiti per sempre?

Nel primo caso dobbiamo riaprirci al mondo e, per farlo, ritrovare la tensione morale dei secoli migliori della nostra storia.

Nel secondo non dobbiamo fare altro che continuare a seguire il cammino verso il tribalismo che abbiamo intrapreso negli ultimi decenni.

 

Foto: Noborder Network/Flickr


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