Lampedusa: il disastro dello Spirito occidentale

par Daniel di Schuler
lunedì 28 marzo 2011

"Le condizioni indegne in cui sono costretti a sopravvivere i profughi trattenuti sull’isola (a Lampedusa si è arrivati ad ospitare 5000 esuli; tanti quanti gli abitanti), sono il risultato di una catastrofe che non ha nulla a che vedere con la Libia o la Tunisia: sono il prodotto, in ultima analisi, della sfiducia che l’Italia e l’Europa hanno nel proprio futuro".

Dall’inizio dell’anno sono arrivati a Lampedusa 15.000 esuli: un numero sorprendentemente basso, considerati gli sconvolgimenti epocali che stanno avvenendo in Nordafrica, pari al 2,5% delle persone che entranano irregolarmente in Italia ogni anno e niente in confronto ai milioni di clandestini che vivono in Europa.

Provvedere a dare loro una sistemazione provvisora dignitosa e lasciarli poi liberi di cercare lavoro in un continente, il nostro, che ha ancora fame di madopera - basta sentire quel che dicono le associazioni industiali per verificarlo; gli italiani vogliono lavorare, ma ben pochi in fabbrica e quasi nessuno in certe fabbriche - avrebbe dovuto essere semplicissimo; una cosa da nulla in confronto a quel che i vari paesi europei hanno fatto, pur essendo in macerie, per accogliere i milioni di profughi in movimento da est verso ovest alla fine della seconda guerra modiale.

Le condizioni indegne in cui sono costretti a sopravvivere i profughi trattenuti sull’isola (a Lampedusa si è arrivati ad ospitare 5000 esuli; tanti quanti gli abitanti), sono il risultato di una catastrofe che non ha nulla a che vedere con la Libia o la Tunisia: sono il prodotto, in ultima analisi, della sfiducia che l’Italia e l’Europa hanno nel proprio futuro.

E’ di questa sfiducia che si è alimentata l’orribile politica degli ultimi decenni: una politica dei ponti levatoi e delle muraglie buona per un continente che si sente in decadenza; che ha rinunciato ai propri ideali e ai propri sogni.

Vedendo le immagini di quei profughi, e più ancora ricordando i respingimenti in mare, è inevitabile pensare a quel che sono ormai ridotti i diritti dell’uomo; quei diritti che ormai diamo per scontati, quasi naturali, ma che sono, invece, la conquista più alta della civiltà europea e la cui difesa dovrebbe essere la nostra principale preoccupazione.

Basta sentire dibattere i politici, sentire le loro schermaglie sullo status da garantire o meno a questi disperati, per comprendere che i “diritti dell’uomo” non esistono più neppure in linea teorica: esistono ancora solo i diritti dei cittadini di questo o quel paese.

Nessuno, neppure i politici più progressisti, osa parlare di diritti dell’essere umano in quanto tale, in quanto membro della nostra stessa specie, prescindendo da qualunque altra considerazione.

Peggio: nel caso dei respingimenti in mare si è arrivati a creare il perfetto “uomo sacro”.

Uomo sacro, dove sacro vale intoccabile, veniva chiamato nella romanità delle origini chi era messo fuori dal consesso sociale; chi non poteva essere legalmente ucciso (giustiziato) ma pure poteva essere ucciso senza che vi fossero conseguenze di sorta.

Erano uomini “sacri” quasi perfetti i detenuti dei campi di concentramento, la cui vita era alla mercé del capriccio dei guardiani, ma che pure erano debitamente registrati e, orrendamente, numerati; sono uomini “sacri” assolutamente perfetti, ridotti a mere entità biologiche, gli esuli respinti in mare senza che di loro venga neppure registrato il nome: vite precarie che possono spegnersi o essere spente senza che nessuno se ne accorga.

La risposta logica, razionale, europea, alla complessità del mondo nuovo avrebbe dovuto essere la definizione di un diritto “assoluto” degli esseri umani in quanto tali; di un nucleo di diritti garantiti a tutti gli abitanti del pianeta e assolutamente inalienabili.

Ho usato quegli aggettivi con perfetta coscienza.

La patria Europea non va dagli Urali all’Atlantico o da Pantelleria a Capo nord: è, nel senso fichtiano del termine, il territorio spirituale dove regnano la curiosità e il dubbio, dove si riconosce il diritto e si crede nella sacralità, questa volta nel senso moderno del termine, della vita: questo rappresentano le radici greco-romane e cristiane del nostro continente cui proprio la peggior politica fa sempre riferimento; questo è (o era fino a poco fa) il senso della nostra storia.

Chiudendoci a riccio, rifiutando di riconoscere agli altri i diritti di cui noi stessi godiamo, lasciandoci vincere dalla sfiducia e dalla paura, badando solo a difendere quel che abbiamo senza guardare con occhi nuovi al mondo nuovo, siamo sconfitti in partenza; accettando che vengano limitate le libertà altrui accettiamo anche che venga sempre più nettamente definito il perimetro delle nostre e, basta confrontare le leggi e leggine approvate in questi anni dai nostri parlamenti, che questo perimetro venga continuamente ristretto.

Non siamo, già ora, più europei; siamo una tribù stretta attorno ai nostri totem, con l’attenzione concentrata sui nostri feticci, convinta di non poter più dare nulla al mondo.

Non pensiamo, in realtà, d’avere un futuro: lo abbiamo già lasciato nelle mani dei cinesi, degli indiani o di chiunque inventerà il paradigma, necessariamente nuovo, che informerà le relazioni internazionali di domani.

Peccato: proprio partendo dai diritti dell’uomo avevamo, e avremmo, tutto per essere noi a farlo.


Leggi l'articolo completo e i commenti