Lambert libero, nessuno ha il diritto di obbligarlo a vivere

par UAAR - A ragion veduta
giovedì 11 giugno 2015

L’iter giudiziario riguardante il caso di Vincent Lambert, tetraplegico francese da sette anni in stato vegetativo, è ormai giunto al termine. La Corte di Strasburgo ha stabilito con sentenza inappellabile che l’azione di sospendere l’alimentazione e l’idratazione forzata dell’uomo, come già disposto dal Consiglio di Stato francese sulla base della legge Leonetti, è compatibile con il diritto alla vita sancito dall’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani.

Per i giudici tale atto, l’interruzione di alimentazione e idratazione, non può nemmeno essere considerato un’eutanasia ma va piuttosto considerato come interruzione di un trattamento non voluto dal paziente o considerato accanimento terapeutico dai medici. Non è una differenza di poco conto, visto che in Francia l’eutanasia non è al momento permessa.

Del resto il concetto stesso di diritto denota potenzialità, presuppone che il suo esercizio possa avvenire solo a seguito della deliberata volontà del titolare. Altrimenti non sarebbe più un diritto, ma un obbligo, una coercizione. O addirittura un dovere. Ed è effettivamente in questo senso che il diritto alla vita tanto sbandierato dalla Chiesa cattolica e da varie altre confessioni religiose viene inteso, tant’è che si pretende di riconoscerlo perfino a gameti (vedere divieto di contraccezione) ed embrioni (vedere divieto di interrompere una gravidanza) che certo non possono essere titolari di diritti umani.

Nel caso in questione si parla però di una persona in carne e ossa, una persona che una vita vera l’ha avuta ma che a causa di un tragico incidente motociclistico si trova in uno stato cosiddetto “di coscienza minima”, in cui quelle piccole reazioni che manifesta non possono essere considerate volontarie ma è probabile che siano riflessi automatici. Uno stato in cui dipende e dipenderà sempre dalle macchine per alimentarsi e idratarsi, a meno che appunto non si decida di porre fine a un simile strazio. Ma soprattutto, uno stato in cui lui sembra che non avrebbe voluto rimanere.

Perché alla fine il nodo del contendere sta tutto qui: nello stabilire, pur partendo dal presupposto che il paziente viva e non vegeti, quale sia la sua reale volontà. In Francia la moglie di Lambert insieme alla maggior parte dei suoi sette fratelli sono riusciti a dimostrare che lui non avrebbe mai voluto essere costretto a rimanere in queste condizioni, e a quanto è dato sapere i genitori e i due fratelli contrari alla cessazione dell’alimentazione non hanno mai dimostrato il contrario.

È sulla base di questo che i tribunali avevano concesso l’autorizzazione all’interruzione del trattamento, così come a suo tempo la magistratura italiana appurò e dispose riguardo al caso di Eluana Englaro, anch’esso finito sul tavolo della Cedu.

Ecco perché è importante per tutti manifestare le proprie volontà finché si è in grado di farlo, magari mettendole nero su bianco in un testamento biologico; perché nessuno domani possa dimostrare il contrario. E questo vale tanto per chi non desidera vivere artificialmente quanto per chi, al contrario, vuole aggrapparsi alla speranza di recuperare una seppur minima vita di relazione. Se poi viene riconosciuto che la persona in questione non vive ma vegeta il problema non dovrebbe nemmeno essere posto, perché se è vero che esiste il diritto di vivere è altrettanto vero che non risulta che esista alcun diritto di vegetare, e questo è anche il principale aspetto della legge Leonetti che ha orientato i tribunali verso l’accoglimento delle richieste della moglie di Lambert.

Non ha tuttavia nessuna intenzione di stappare lo spumante Rachel Lambert, ci mancherebbe altro. È vero, con questa sentenza si è posto fine a una situazione di sofferenza e di contrapposizione di visioni diverse del concetto di vita, ma si sta pur sempre redigendo un certificato di morte. Che questa morte sia avvenuta nel 2008 o nel 2015 non cambia il fatto che di un evento triste si sia trattato. Decisamente più agguerrita, com’è ovvio aspettarsi, la madre di Lambert che definisce scandalosa la sentenza del 5 giugno e annuncia battaglia facendo sapere che chiederà una nuova valutazione medica. La sua determinazione è umanamente comprensibile ma rimane il fatto che ben tre perizie disposte dai tribunali francesi hanno già univocamente certificato l’irreversibilità della condizione di Lambert ed è quindi altamente improbabile che una nuova perizia possa dire il contrario, per di più a distanza di altro tempo.

A soffiare sul fuoco della difesa a oltranza della non vita, del diritto di decidere per gli altri, il mantice delle associazioni cattoliche. In Francia ne è perfino sorta una specifica che dal nome sosterrebbe Vincent Lambert ma nei fatti sostiene quelli che vogliono negare la sua volontà, e del resto gli stessi genitori di Lambert pare siano sempre stati ferventi attivisti cattolici. In Italia tra le prime ad essere intervenute c’è Scienza e Vita. 

Dalle colonne di Avvenire si legge la posizione espressa dalla presidentessa Paola Ricci Sindoni secondo cui l’interruzione dell’alimentazione è per definizione una violazione del diritto di vivere. Sindoni si chiede anche retoricamente “quale diritto ha la società dei sani di decidere quale vita è degna di essere vissuta”. Perché invece quale diritto ha la società dei moralisti di deciderlo al posto dei diretti interessati?

Massimo Maiurana


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