La teoria del piano inclinato, Corrida #23

par Riciard
mercoledì 26 novembre 2008

L’unico racconto pubblicato a puntate sulla rete che è un po’ come la vita: si sa quando e come inizia, ma non si sa mai bene dove vada a finire.

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(appunti di percorso di Alex)

.23

Venni dimesso anche dall’ultima anticamera infernale, ero maleodorante, non mi sentivo affatto bene, non avevo un soldo in tasca e l’unico luogo in Spagna che conoscevo distava una buona dose di chilometri.
Ma quando stai male tutto si fa più semplice, le motivazioni sfuggono, diventano impalpabili, e la volontà finisce in una non bene conosciuta cavità sotto la pianta dei piedi. Il sole cominciava il suo cammino verso il tramonto ed io, mal vestito, maleodorante e tutto quanto volete, non riuscii a fare di meglio che sdraiarmi sul primo prato che mi trovai davanti e dormire. Il pensiero di lei, di Amalia evaporava, si presentava come secondario, ciò che ci voleva era un po’ di riposo, una decisa operazione di restauro notturno, poi si sarebbe deciso sul da farsi. E davvero non importava se era caldo, se freddo, se la gente mi avrebbe scambiato per un barbone o cose del genere: come ho detto, le motivazioni cessano davanti alla mancanza di forza.

Ricordo vagamente il sogno, una sorta di sudata infernale accompagnata da brividi freddi, forse pensai a lei, forse mi si presentò davanti agli occhi la mia stessa figura che vomitava in arena provocando una giusta rinculata ad El Cabesa, forse tutto insieme, fatto sta che mi svegliai intorpidito, rannicchiato in posizione fetale, con un terzetto di militari che mi guardavano. Mi avevano svegliato spostandomi con un bastone simile ad un manganello, e adesso mi parlavano in un dialetto stretto, che faticavo a capire. Non erano passate ancora quarantotto ore della mia permanenza a Barcellona che già la mia vita sembrava legata ad una interminabile catena di consequenzialità negative. Metti una palla su di un piano inclinato, diceva uno, non potrà fare altro che correre veloce per la pendenza.

Non risposi a nessuna domanda, e non per protesta, ma per il semplice fatto che non li capivo,e senza pensarci due volte mi accompagnarono senza complimenti o delicatezza alla loro centrale operativa. Mi venne presentato il mio alloggio, una sudicia cameretta senza finestre dotata di sbarre, tazza per i bisogni e una sudicia brandina. Continuarono a parlarmi, ed io provai a fargli capire che non potevo comprenderli, non parlavano lo stesso spagnolo che avevo sentito sin da allora, era un idioma più stretto, quasi ridicolo. Mi lasciarono stare per circa una mezzora, feci appena in tempo ad addormentarmi che un uomo graduato entrò nella cella.

Nome, cognome, motivo del soggiorno.
Cosa ci facevi a dormire sdraiato per terra.
Non sai che c’è il copriifuoco, che nessuno può osare infrangerlo?

Alexander Lee, vacanza, forse, (era troppo difficile riuscire a spiegare che era in realtà una punizione paterna)
Stavo male, avevo vomitato e mi avevano picchiato pochi minuti prima, non avevo forze.
No, non lo sapevo.

Lui, se non altro, lo capivo.

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