La riforma della giustizia ed Amartya Sen
par Bernardo Aiello
giovedì 20 gennaio 2011
Le ultime vicende politiche non lasciano ben sperare sui tempi di adozione della riforma della giustizia; ed allora è possibile ingannare l’attesa continuando le riflessioni sul tema con l’ausilio di Amartya Sen, autore del saggio L’idea di giustizia, editore Mondatori, pagine 419, Euro 22,00.
In via preliminare occorre rilevare come il pensiero contemporaneo si sia significativamente sviluppato ad opera di economisti trasformatisi in filosofi, mentre all’origine era l’esatto contrario. Siamo partiti da Aristotele, che nella Politica si occupava della differenza fra l’arte dell’amministrazione domestica o oikonomia (oikos in greco vuol dire casa) e l’arte dell’acquisizione dei beni o crematistica (kremata in greco vuol dire ricchezza), e siamo pervenuti ad economisti come Hirschman che debordano nella sociologia e nell’etica. Fra i più illustri di essi l’indiano Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998 e docente di Economia e Filosofia ad Harvard, l’autore del saggio in questione.
Un orientale, dunque; un orientale che non rinnega le sue radici culturali, definendo “provincialismo” l’atteggiamento consueto degli occidentali, usi a considerare la sapienza orientale essenzialmente religiosa ed a riservare solamente a quella occidentale i connotati dell’indagine razionale. Per la prima volta una voce autorevole si alza a dire che anche fuori dall’Occidente «sono stati elaborati concetti come giustizia, equità, responsabilità, dovere, bontà e onestà» e che «nelle principali tradizioni del dibattito occidentale contemporaneo la disseminazione globale di queste articolazioni concettuali è stata troppo spesso trascurata e marginalizzata».
E’ anzi un richiamo ad una distinzione presente negli antichi scritti etici e giuridici sanscriti a fornire uno spunto di riflessione utile anche per le cose di casa nostra. Amartya Sen ci informa che tutti gli antichi scritti indiani del diritto parlano con disprezzo di quello che chiamano matsyanyaya, che si può tradurre «la giustizia del mondo dei pesci». Si tratta di un sistema sociale dove, in senso figurato, il pesce grosso può liberamente divorare il pesce piccolo, infischiandosene del fatto che, nel caso di uomini, essi hanno tutti pari dignità di persona. Evitare il matsyanyaya, ammoniscono questi antichi testi, è parte essenziale della giustizia, così come è essenziale assicurarsi che «la giustizia del mondo dei pesci» non si introduca nel mondo degli uomini.
Su questo punto il dato empirico di partenza della riforma della giustizia nel nostro Paese dovrebbe essere se, nella società e nelle aule dei tribunali, si è fatta strada «la giustizia del mondo dei pesci». Ma chi dovrebbe farla questa ricerca? Non certo il Consiglio Superiore della Magistratura, cui competono compiti ben diversi da quello di fare simili valutazioni. Gli unici che fanno qualcosa del genere sono gli studiosi di diritto, che catalogano e raccolgono le più importanti sentenze al fine di fornire agli avvocati una utile guida nel loro lavoro. Questo, però, è insufficiente per due motivi, e precisamente:
a) Questi studiosi trattano solamente quello che succede nelle aule di giustizia, e non anche quello che succede nella società;
b) Essi utilizzano il dato empirico come un dato di fatto regolativo dell’attività degli avvocati e non al fine di valutazioni sul tipo di giustizia o di ingiustizia che viene ad essere applicata.
Dovrebbe essere principalmente il Parlamento a fare questo tipo di indagine, e ciò anche al fine di valutare opportunamente e pienamente l’impatto del suo lavoro (i.e. la funzione legislativa) sulla società. Ma questo il vostro cronista teme proprio che non accada perché i nostri parlamentari sono in tutt’altre faccende affaccendati (e principalmente nella lotta per il potere fine a se stesso).
Eppure i casi in cui un povero pesce piccolino è divorato da uno o più grossi pescioloni sono abbastanza frequenti. Uno per tutti: la violenza fino al provocato suicidio del professore Adolfo Parmaliana, sul cui caso è stato scritto un esauriente saggio da Alfio Caruso, intitolato Io che da morto vi parlo, editore Longanesi.
Anzi il vostro cronista è siciliano come Adolfo Parmaliana e vorrebbe esprimere una sua idea intorno alle conseguenze sul funzionamento del sistema giudiziario dovute al contenimento in limiti ridotti dell’attività economica privata nel Meridione. Questo fatto oggettivo ha come conseguenza una vera e propria ipertrofia della Pubblica Amministrazione, che resta quasi da sola ad esercitare il potere che deriva dalla gestione economica della società. In soldoni la mancanza di una classe imprenditoriale privata attiva ed intraprendente fa sì che tutto il potere sociale sia «potere pubblico». Dunque esso è esercitato dalla classe politica, dagli uffici pubblici e dai privati che esercitano un pubblico servizio; proprio come nel Celeste Impero, dove tutto il potere era concentrato in quelli che noi occidentali abbiamo chiamato Mandarini, ossia nei soggetti che esplicavano un pubblico incarico. Questo è proprio quello che accade nella città abitata dal vostro cronista : i pesci grossi sono tutti "pesci pubblici" ; e quello che è accaduto al professore Parmaliana è la prova provata che la società meridionale è assolutamente e totalmente intrisa della «giustizia del mondo dei pesci».
Non ci resta che sperare nella riforma della giustizia prossima ventura, che, secondo alcune autorevoli previsioni, seguirà con attenzione il pensiero del premio Nobel Amartya Sen e non si occuperà di altro; men che meno delle vicende giudiziarie dell’attuale premier.