La riforma del lavoro, la crisi e i danni del liberismo

par Lionello Ruggieri
martedì 17 aprile 2012

Le esperienze in Argentina, Messico, Russia, Polonia, Inghilterra e Usa dimostrano che il liberismo è il problema, non la soluzione. E già oggi abbiamo pressione fiscale scandinava senza il suo welfare, licenziamenti americani e stipendi portoghesi, liberismo inglese ed economia greca.

Oggi i seguaci dell’iperliberismo friedmaniaco criticano lo scarso liberismo del Governo nella riforma del diritto del lavoro (che chiamano riforma del lavoro), appena varata.

Trovo che la preoccupazione dovrebbe essere il contenuto liberista di quella e di altre riforme in animo del governo.
 
Sul Fatto Quotidiano è comparso un articolo di H. Verbtsky (Centro Studi Giuridici e Sociali di Buenos Aires) che, dati alla mano, spiega i devastanti risultati della politica liberista in Argentina negli anni ’90, sotto un altro tecnico (il Ministro Cavallo); risultati che molti hanno già sentito sulla propria pelle anche qui in Italia.
 
I nostri liberisti, in effetti, si riferiscono essenzialmente alla persistente esistenza dell’articolo 18 per la minore flessibilità in uscita, termine che, tradotto, significa licenziamenti facili e arbitrari come fecero, con grandi danni, in Argentina, Messico, Russia, Polonia. E in Inghilterra e Usa (Shockeconomy, Naomi Klein).
 
Sostengo da tempo (e in questo mi fa compagnia Bertrand Russell) che spesso l’ostacolo alla comprensione dei problemi è l’imprecisione di linguaggio. In fondo la matematica è stata creata proprio per evitare questo.
 
Vediamo quindi, qual è la vera lamentela, anche se quello che deve preoccuparci di più non è questo, ma la riforma fiscale con un’imposizione basata sui consumi e non sul reddito.
 
Come si esce dal mondo del lavoro? Solo in due modi: con il pensionamento o con il licenziamento. Non ne esistono altri. A parte quello Thissen che ha dato sette uscite senza licenziamenti o pensionamenti. 
 
Valutiamo, quindi, la giustezza delle critiche dei liberisti. Il Governo, tra il plauso generale, ha varato la riforma delle pensioni che prevede il protrarsi dell’età di pensionamento. E’, quindi, evidente che nessuno cerca la flessibilità di uscita dal lavoro con i pensionamenti. E, dicono, con validi motivi: perché il peso delle pensioni è già eccessivo, non ci sono mezzi per pagare altre pensioni.
Unico modo di uscita dal lavoro rimane, quindi, il licenziamento.
 
E allora che dicano che vogliono maggiore facilità di licenziamento. E poi spieghino come e perché questo, per loro, fa aumentare l’occupazione. E, magari, pure che l’esistenza del divorzio fa aumentare i matrimoni e le droghe libere diminuire i drogati.
 
In vero l’ha tentato Catricalà, a Ballarò il 28/3/12, e ha detto che oggi (proprio oggi) moltissime aziende con 14 operai potrebbero assumerne altri dieci, ma non lo fanno per paura di problemi in caso di futuri licenziamenti. A suo dire, tolto l’articolo 18, queste tantissime aziende assumeranno subito dieci persone. O Catricalà mente o tutti noi non abbiamo capito nulla.
 
Per quel che so questa è crisi è mondiale, come quella del ’29, e le aziende ora vogliono licenziare, sopravvivere. Ci sarà pure l’azienda che ha bisogno di assumere, ma certo non di aumentare l’organico del 70%.
 
E, per quel che ho imparato in anni di risanamenti d’azienda, nessun imprenditore rinuncerebbe a raddoppiare il fatturato e l’utile per paura, forse, poi, di aver problemi a licenziare.
 
Se la domanda dei suoi prodotti fosse così forte non esiterebbe a creare un’azienda separata, una cooperativa con finanziamento pubblico o a nome della moglie con aiuti all’imprenditoria femminile per affidarle lavori o settori della produzione.
 
O cercherà precari, lavoratori in nero, una delle aziende che, invece, hanno poco lavoro per coprire le commesse, ma non lascerà sfumare la sua crescita.
Come fanno da sempre tutte le aziende. Piccole o grandi.
 
Ci dicono che lo Stato non può pagare le pensioni, che dobbiamo farci una pensione con il tfr, ma non perché quella stessa pensione su cui qualcuno guadagna, non può darcela lo Stato senza guadagnarci; che lo Stato deve darcela a 67 anni per i costi, ma nulla fanno per recuperare i 120 miliardi evasione, i 70 persi per la corruzione, i 40 per gli incidenti sul lavoro e i 30 per quelli stradali.
 
Ci raccontano che per aumentare gli occupati occorrono più licenziamenti. Senza l’onestà di chiamare le cose con il loro nome.
 
Abbiamo il peggio del mondo: pressione fiscale scandinava senza il suo welfare, licenziamenti americani e stipendi portoghesi, liberismo inglese ed economia greca.
 
Continuano a chiedere più libertà per l’economia, ma la crisi è nata dalla troppa libertà economica Usa, aumento i consumi, ma da questi sono venuti in America quei mutui subprime che ci hanno fregato tutti. Vogliono curare una crisi non italiana con un rimedio italiano, una crisi da troppi consumi e troppo liberismo anglosassone stimolando consumi e liberismo. Reclamizzano il passaggio di beni e funzioni da Stato a privato, ma tutti vediamo il trionfo della pubblica Volkswagen e gli stenti della privata Fiat.
 
Ai liberisti vorrei ricordare che loro nel 2008 implorarono gli Stati per impedire al libero mercato di regolarsi liberamente (e fecero bene) e che, in un articolo degli anni ’40, osteggiavano il nuovo sistema sanitario pubblico inglese sostenendo che quella riforma avrebbe ucciso tremila inglesi l’anno per l’affollarsi di malati che, non più frenati dal costo della visita, avrebbe impedito ai sanitari di studiare, ma tutti sappiamo come è andata.  
 
Ripeto: la crisi atroce che ci è capitata (perché in parte è voluta) deriva della troppa libertà economica USA voluta per sostenere l’aumento dei consumi e per cedere ai privati i servizi pubblici per avere meno tasse e meno Stato. Che, forse, però non serve a niente.

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