La querelle "naturale contro artificiale": dagli Ogm al parafulmine

par Iaia Leone
mercoledì 7 agosto 2013

L'eterna contrapposizione tra naturale e artificiale mostra un'incapacità di fondo nel dirimere questioni complesse, che vengono appiattite, sull'onda dell'istinto e di facili entusiasmi, a mere prese di posizione. 

È di tre settimane fa il decreto che vieta la coltivazione in Italia del mais geneticamente modificato Mon810. A proposito di questa decisione, il ministro dell’Agricoltura, Nunzia De Girolamo ha dichiarato che le nostre colture si basano “sulla biodiversità, sulla qualità e su questo dobbiamo continuare a puntare, senza avventure che anche dal punto di vista economico non ci vedrebbero competitivi”.

Sulla stessa linea si sono schierati Coldiretti, la Confederazione italiana agricoltori e varie associazioni ambientaliste, tra cui la sempre presente Greenpeace, che ha spiegato: “Gli OGM sono un rischio inutile e inaccettabile, non offrono vantaggi significativi a nessuno se non alle aziende che li brevettano”.

Che si può tradurre, io credo, in un’affermazione di questo tipo: è molto più facile fare di tutta l’erba un fascio, invece di impegnarsi nel dirimere le questioni caso per caso, applicando con costanza una certa capacità di discernimento. Il fatto che poi 8 italiani su 10 siano favorevoli al ddl (fonte: Coldiretti) dimostra che in molti amano procedere come la Verdepace, senza preoccuparsi di documentarsi o di informarsi adeguatamente.

La controversia "Ogm sì, Ogm no" può essere ascritta alla più generica contrapposizione "naturale vs artificiale" che miete vittime in tutti i campi: uno degli atteggiamenti che va per la maggiore è proprio quello di definire cattivo ciò che è artificiale e buono ciò che è naturale. Come se il naturale fosse intrinsecamente buono, buono in sé e per sé, innocuo per il fatto stesso di essere reperibile in natura. Mentre l’artificiale, seguendo il filo del ragionamento, è intrinsecamente cattivo, una propaggine delle smanie dell’uomo, che cerca di plasmare a sua immagine e somiglianza il pianeta, noncurante delle altre specie vegetali e animali.

Eppure basta poco per accorgersi che un approccio di questo tipo non porta lontano e che si invalida nel momento stesso in cui si afferma: è sufficiente spostare l’attenzione al piano della semantica infatti, per rendersi conto che non disponiamo nemmeno di una definizione di questi due poli contrapposti che sia condivisa. A rigor di logica, potremmo dire che qualsiasi cosa derivi dalla razza umana è artificiale e dunque cattiva: ma allora dovremmo etichettare come cattive non solo l’arte o l’architettura, che offuscano la bellezza di laghi e monti, ma anche la medicina, che si intromette nel corso delle cose.

Poi, per tornare nel campo dell’agricoltura, dovremmo anche smetterla di mangiar carote arancioni, ché in realtà un tempo erano viola, e tutta la frutta e verdura d’importazione, che non avremmo mai trovato sulle nostre tavole se non ci avessimo messo lo zampino e che sono andate a modificare profondamente la biodiversità tipica del nostro territorio. Dovremmo esimerci dal produrre, dal fare, dal creare: ma se il produrre, il fare e il creare facessero parte della nostra natura umana, non finiremmo per cadere in un paradosso? 

Come ci insegnano gli amanti della biodinamica, del detersivo al limone e dei fiori di Bach, tutto il buono che c’è in questo mondo è già in natura. Di più: tutto ciò che si trova in natura non può che essere buono. Una considerazione del genere è confutabile troppo facilmente, quindi andrò oltre, facendo semplicemente notare che purtroppo siamo stati contenti quando Franklin inventò il parafulmine e ancora di più quando iniziammo a disporre di mezzi di navigazione, o della ruota, o di un pavimento sotto i piedi e di un tetto sopra la testa.

Sono osservazioni d’una banalità sconcertante, certo, ma proprio per questo chiariscono con immediatezza l’assurdità di un approccio che non ci arricchisce, anzi, impoverisce miseramente i termini di discussioni altrimenti complesse e filosoficamente avvincenti. Assumendo che sia pressapoco impossibile determinare quale sia il confine tra artificiale e naturale e ammettendo che nella sopravvivenza della nostra specie la nostra capacità di intervenire sull’ambiente circostante è stata determinante, possiamo facilmente arrivare alla conclusione che posizioni come quella di Greenpeace o del governo attuale sono sterili, oltre che controproducenti.

Sarebbe molto più interessante acquisire la capacità di dibattere su questioni controverse approfondendo le argomentazioni pro e contro e confrontandosi razionalmente su tematiche che attraversano vari campi, da quello economico a quello dell’etica, solo dopo essere sicuri di disporre degli strumenti per comprendere.

Purtroppo invece ci viene più naturale decidere in base al nostro istinto o alla nostra sensibilità personale, scegliere una linea e tenere quella tutta la vita, senza mai metterci in discussione; dividerci in fazioni avverse chiamando dialogo quello che è un’evoluta riproduzione dell’arte della guerra (ma siccome hanno eserciti anche le formiche, possiamo dormire sonni tranquilli).

 

Foto: Robert North/Flickr

 


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