La nonnina e il carabiniere, una favola moderna
par Roberta Muzio
martedì 3 giugno 2025
La nonnina e il carabiniere, sembra il titolo di una novella d’appendice, una di quelle che nelle riviste illustrate dell’Ottocento teneva incollati alle pagine, puntata dopo puntata, i lettori; veniva chiamato feuilleton. Invece, quella che vi raccontiamo oggi, è una storia vera, che potrebbe diventare una fiaba moderna, in cui i protagonisti sono un uomo dello Stato e un’anziana signora, povera e schiva.
- Verso una nuova vita
- Il carabiniere accompagna l’anziana signora
La nostra storia è ambientata in Molise, in quello interno, in una terra aspra, dove gli inverni sono rigidi, lunghi, solitari, come a Frosolone. Proprio lì, nel Molise di mezzo, dove le strade attraversano campagne brulle, le curve seguono i dirupi delle montagne cedendo il passo alle frane, dove s’incontrano terreni incolti intervallati da campi arati, colline che scoprono calanchi, boschi che diventano rifugio per i rapaci, lì, possono capitare incontri speciali. Cosa che è avvenuta quando si sono incrociate due esistenze provenienti da mondi opposti.
In una casetta nell’estrema propaggine del territorio comunale viveva una vecchietta, minuta, curva, dagli occhi vispi e lucidi. La donna abitava sola. Dopo la morte del fratello l’anziana cognata era stata trasferita in una casa di riposo e, di lì a poco, anche lei era morta. La nonnina in gioventù era stata sposata. Con suo marito avevano deciso di emigrare, lontano, in Australia e, di lì a poco, era nato un bambino. Emigrati tutti, alla ricerca di un’esistenza migliore, in fuga da una realtà ancora, nel XXI secolo, avara di soddisfazioni per molti, ladra di speranze. Destinazione Australia, la meta più lontana che tanti molisani scelsero nel secolo scorso e che richiama, ancora oggi, i discendenti di quei primi coraggiosi uomini e donne che decisero di partire, per necessità, per opportunità. Ma, poi, qualcosa era andato storto nella vita di coppia. Così, dopo essere ritornata in Italia per quella che doveva essere in partenza semplicemente una vacanza nel paese d’origine, per salutare i parenti, un mattino Maria trovò l’amara sorpresa: il marito era partito portandosi via il bambino, di nuovo in Australia, lontano.
Così Maria, già sofferente nell’animo, rimase sola nella casa di campagna, privata di qualsiasi affetto, lontana dal legame più caro, quello del figlio, tranciato di netto, lasciandole una ferita profonda, sanguinante. Si difese, Maria, da quel dolore immenso a modo suo: la sua casa divenne il suo scudo. Un’abitazione umile dalle mura grezze e le vecchie imposte che lasciano entrare spifferi quando il vento tira forte e l’uscio, nonostante sia chiuso dall’interno, sbatte di continuo. Ma Maria era abituata a quel rumore, al vento, alla neve, al canto degli uccelli che per tanti anni le hanno rallegrato il cuore, al saluto del gallo che la svegliava al mattino. Per anni aveva vissuto seguendo i ritmi della natura, senza televisione, senza sprechi, senza fronzoli, senza la modernità di cui sentiva gli echi dal paese. Riscaldandosi con la legna nel camino che ella stessa si procurava andando nel bosco a far fascine e, d’estate, accompagnando i suoi riposi con il canto delle cicale.
I cani dalle masserie presero ad andar da lei e, così, diventarono i suoi amici, i suoi figli. Preparava loro i pasti, poteva finalmente accudire qualcuno, così, i cani, diventarono i suoi figli; lei, madre, che non aveva potuto godere l’esser tale. Di tanto in tanto andava a piedi in paese: al mercato del lunedì per procurarsi una pezza di formaggio, un sacchetto di farina di granturco, una lattina di olio. I paesani la conoscevano, sapevano di lei, immaginavano le sue condizioni ma, a causa del suo carattere schivo, si sentivano rassicurati nel vederla scendere in paese ben sapendo che la donna non avrebbe accettato alcun aiuto le si fosse proposto. Forse qualcuno ci aveva provato ad andare fino a casa sua per chiedere se avesse avuto bisogno di qualcosa ma la dignità della donna era troppo forte, il carattere forgiato dall’amarezza della vita poteva, d’improvviso, diventare brusco. E allora tanto valeva limitarsi a salutarla: “Come stai Maria, tutto bene?”. Lei rispondeva con un cenno, un sorriso smorzato e filava via subito, diretta alla sua casetta, il suo nido, il suo tutto. Gli anni passavano, le sue scarpe si consumavano ma nulla sembrava che potesse cambiare nella vita di Maria. D’altra parte era una donna abituata al sacrificio: di guerra ne aveva vista una. Lì nel suo paese, erano arrivati prima i tedeschi, poi i polacchi, ma di quegli anni ricordava il sibilo delle bombe e gli sfollati per i quali le porte delle masserie come la sua si erano aperte per dare asilo. Nulla poteva essere peggio delle bombe e della partenza dei suoi affetti, nulla poteva essere peggio di quella solitudine immensa in cui viveva; nulla poteva esser peggio del freddo patito sotto gli strati di vecchie coperte che si metteva addosso quando si coricava, rannicchiata nel suo guscio, nella casa che le faceva da scudo. Nulla di peggio poteva accaderle.
Finché non arrivò la pandemia. E allora tutto cambiò. Tutto divenne estremamente complicato per Maria: non riuscire a procurarsi cibo, non udire più alcun rumore di automobili in lontananza, non avere nemmeno più lo sguardo, a volte pietoso, dei passanti o la voce di chi, per strada, le chiedeva se voleva un passaggio per tornare a casa. Nello smarrimento dei primi mesi di pandemia che caratterizzò l’Italia, ci sono state persone che hanno sofferto molto per il solo fatto di essere fragili e sole. Maria è una di queste. In quelle stesse settimane caratterizzate da un generale black out, uomini dello Stato, come i carabinieri, hanno continuato a lavorare. Nei piccoli paesi dell’Italia interna hanno rappresentato, con le loro uniformi, il loro passaggio per le strade deserte, le loro risposte alle chiamate di aiuto, una presenza rassicurante e costante. Di più, hanno rappresentato la speranza e, talvolta, la salvezza. Maria non poteva sapere che anche per lei la speranza avrebbe bussato alla sua porta, avrebbe indossato un’uniforme nera con le strisce rosse, avrebbe avuto grandi spalle, due occhi vispi e chiari come i suoi, un sorriso timido mascherato da una barba austera, due braccia grandi e forti che tenevano buste colme di alimenti. Così si presentò un giorno sull’uscio della porta di Maria, il Comandante della stazione dei carabinieri, Pino Pezzullo.
C’era una bufera di neve, il maresciallo bussò alla porta. La donna non l’accolse bene, affatto. Lo invitò ad andarsene, gli disse che a lei non serviva nulla e che, al limite, poteva accettare qualcosa di quello che avevano portato il Comandante e i suoi uomini ma nulla di più. Poteva tirare avanti, sosteneva. Il primo giorno andò male. Per il maresciallo Pezzullo era ancora poco. Lui, in fondo, di battaglie sul campo ne aveva combattute: prima l’Iraq, poi l’Afghanistan, la Cisgiordania. L’arrivo a Frosolone era stato un approdo tranquillo. Un luogo calmo, certo, rispetto agli scenari di tensione ai quali era abituato ma, al tempo stesso, una destinazione nella quale erano entrati in gioco altri fattori: riorganizzare una piccola stazione dove, alla fine, ci si arrangia con pochi, austeri, mezzi; riportare la presenza dei militari all’interno di una realtà dove, talvolta, la semplicità o il perbenismo, celano fenomeni di alcolismo, degrado sociale, scarso senso di rispetto delle regole, della legge, dello Stato. Fare tutto questo con senso di umanità, empatia, comprensione, rispetto delle abitudini e attitudine al dialogo perché, alla fine, se non ci parli con le persone ottieni molto poco. Fare tutto questo con la consapevolezza che nelle pieghe della normalità possono esserci risvolti sociali a rischio e, allora, un uomo dell’Arma è chiamato a difendere la dignità umana.
Quella di Maria, certo, in quel momento di grossi rivolgimenti, gridava aiuto. Il secondo giorno, pensò bene che qualche panno pulito l’avrebbe aiutata a sentirsi meglio, aggiunse una coperta nel pacco, e sì, qualche dolce, così magari avrebbe fatto breccia nella granitica volontà di Maria di rifiutare qualunque mano tesa. Si ripresentò alla porta, lasciò distante la macchina di servizio e disse al sottoposto di non accompagnarlo. Maria lo aspettava, aveva capito che quell’uomo grande, dal cuore tenero, doveva avere la testa più dura della sua. Gli consentì di entrare ma poi si pentì e frettolosamente gli disse che doveva andar via perché aveva da fare le sue faccende.
Il terzo giorno il Comandante, accompagnato dai suoi uomini sempre presenti e discreti, si fermò a parlare più a lungo con Maria: si fece raccontare un po’ la sua vita. Entrarono in confidenza e, in fondo, avevano trovato dei punti in comune. Il carabiniere raccontò a Maria che anche i suoi genitori emigrarono in Australia e che egli stesso era nato in quel continente. Tanto che avevano pensato di chiamarlo Joseph Enzo ma, una volta rientrato in Italia, tutti avevano iniziato a chiamarlo semplicemente Pino. Quel giorno il maresciallo Pezzullo andò via dalla casa di Maria felice: pensò a lungo a quella chiacchierata, si convinse che era giunta l’ora di cambiare la vita della donna. Nel frattempo era riuscito a sapere parecchie cose. Aveva appreso anche di una segnalazione ai Servizi sociali fatta dal figlio che, mesi prima, era tornato dall’Australia ma, dovendo ripartire e non potendo in alcun modo occuparsi della madre, aveva informato del suo stato gli assistenti sociali. Quella circostanza, dunque, diede l’opportunità di nominare un tutore legale per la donna nella persona del sindaco di allora. Seguirono decine di visite a casa della nonnina da parte dei carabinieri: ogni settimana Pezzullo e i suoi uomini si recavano da lei, le portavano qualcosa, una routine durata un anno e mezzo ma, nonostante il maresciallo avesse conquistato la sua fiducia, ella continuava a non accettare l’idea di allontanarsi da casa. Accadde un giorno che un sottoposto si recò nell’ufficio del maresciallo Pezzullo e con aria preoccupata lo informò: “Signor comandante, ho visto Maria per strada, ha un livido sull’occhio, molto grande”. Pezzullo non ci pensò due volte, si misero in auto e si diressero verso la campagna in direzione della casa di Maria. La trovarono lì: l’ematoma era molto vistoso, forse era caduta e necessitava di cure ma, nonostante tutto, continuava ad opporsi ad essere trasferita in ambulanza. Si pose, a quel punto, una scelta difficile per il Comandante e cioè di chiedere un accertamento sanitario obbligatorio. Difficile, sì, perché Maria avrebbe potuto pensare che il suo maresciallo avesse tradito la sua fiducia, l’avesse ingiustamente portata via dal suo nido, dal suo tutto. Oppure no, forse Maria avrebbe capito che la miseria di quella casa, l’infinita solitudine dei suoi giorni, non era tutto. Il rischio andava affrontato, non c’era altra possibilità, proprio come sul campo di battaglia. E così si andò avanti. La donna fu portata in ospedale e ricoverata, nel frattempo tutto era stato preparato ed organizzato: avrebbe potuto trasferirsi in una residenza per anziani, ricevere tutta l’assistenza necessaria, godere di un sostentamento economico, essere finalmente protetta nella sua fragilità.
Così, una volta dimessa, fu accompagnata in una residenza a pochi chilometri da casa sua, nel suo stesso paese. I primi tempi, ogni giorno, il maresciallo, terminato il servizio, andava da lei. Ogni giorno che passava un pezzetto di Maria cambiava: il taglio di capelli, abiti puliti, scarpe nuove, una doccia calda che la ritemprava, i pasti regolari. Ogni giorno un passo in avanti: prima qualche parola con coloro con cui condivideva la tavola, poi una chiacchierata davanti alla Tv, infine il riannodare amicizie, ricordi, legami antichi e nuovi; una nuova vita. Da allora, ogni volta che il carabiniere si reca a trovarla, lo fa prendendosi una pausa dagli impegni, quasi fosse una ricerca di pace, una ricarica di energia. Quando lo scorge in fondo alla sala di ricreazione affollata dagli anziani, lei lo chiama da lontano: “Comandante mio, sei venuto a trovarmi?”. Il suo volto si illumina, gli va incontro, lo abbraccia. E lui la stringe a sé, con le sue grandi braccia che la sovrastano, le mani delicatamente le accarezzano i capelli bianchi. Trascorrono un po’ di tempo insieme, parlano. Poi si salutano e si promettono di rivedersi presto. Uscito dalla residenza, si volta per salutarla, lei gli sorride da dietro la finestra: alla prossima volta, alla prossima pausa, al prossimo arrivederci.