La missione della sinistra europea

par Vincenzo Montelisciani
mercoledì 15 febbraio 2012

La politica ha oggi l’arduo compito di riappropriarsi di nuovo del comando e del potere di decisione, di recuperare quel primato senza il quale le è impossibile far prevalere il bene comune sugli interessi privati di qualche potere economico.

Il Continente europeo è scosso da una crisi economica che rappresenta un passaggio drammatico, nella misura in cui ne mette in discussione la crescita, il benessere, il ruolo geopolitico e il modello sociale.

Molto si è detto: la crisi è globale, strutturale, sistemica; il capitalismo, con il suo paradigma di crescita infinita, manifesta la sua propria incompatibilità con la Terra - pianeta dalle risorse finite – e con il benessere che i suoi apologeti promettono.

Tutto vero, eppure al di fuori dell’Europa molti stati hanno ricominciato o continuato a crescere. Segno evidente che questa crisi non segna la fine del sistema capitalista. Il sistema è sempre lì, pronto ad auto-rigenerarsi. Sarebbe sbagliato e del tutto incosciente credere che l’approdo necessario di questa fase sia il superamento del capitalismo o comunque dei meccanismi finanziari degenerativi che esso produce. 

Dunque: 1) La crisi è soprattutto europea; 2) la crisi non segna l’inesorabile implosione del sistema capitalista.

L’Europa di Maastricht, è del tutto evidente, non ha le caratteristiche statutarie per rispondere adeguatamente alle urgenze del tempo attuale. L’UE non è uno stato, non ha istituzioni democratiche solide e plenipotenziarie, non ha nemmeno sostanziali capacità di intervento. Ma, soprattutto, l’Europa per come è oggi strutturata ha la sua ragione fondante nel primato dell’economia sulla politica.

Ora, al di là di questi dati di fatto, ciò che preoccupa maggiormente è l’assoluta miopia e la grossolana incapacità della classe dirigente europea, e in primis di Merkel e Sarkozy, di elaborare una strategia che ci traghetti al di là della burrasca. La storia, in questo caso, non è magistra vitae, poiché assistiamo, ancora una volta, alla disunione degli stati europei. I leader europei non solo mancano di una visione che li accomuni, ma soprattutto di una visione d’insieme. Questi leader, nella loro sconfortante mediocrità, sembrano non porsi neanche il problema di un punto di vista europeo sulla fase attuale, schiavi come sono dei rispettivi interessi nazionali e dei loro personali problemi di politica interna. Se si riuscisse a guardare l’orizzonte verso cui ci stiamo muovendo, invece, si capirebbe quanto la politica dell’interesse nazionale über alles sia assolutamente folle e autolesionista. Nessuno alza la testa: tutti osservano, con straordinario acume, soltanto il proprio ombelico. 

Se, dunque, la politica si prostra davanti al dio mercato e i politici europei sono dei fantocci, la reazione delle élites tecnocratiche del continente non deve assolutamente meravigliare. Essa è la naturale conseguenza dell’assetto istituzionale e dei rapporti di forza che si sono determinati in seguito all’accettazione della subalternità della politica e alla rinuncia del campo progressista ad una visione di alternativa: fenomeni che a mio avviso esprimono un identico concetto. 

Qui vale la pena fermarsi. Ogni crisi - ma questa in modo particolare - da un lato mette a nudo le criticità del sistema, dall’altra rappresenta una cesura, una cerniera, un momento che separa la maniera d’essere di un fenomeno da un’altra ad essa differente. La parola crisi nel suo significato più proprio e radicale significa decisione, giudizio, distinzione nel momento in cui le cose cambiano. 

Dunque, mi piace sottolineare che la crisi evidenzia soltanto delle storture che già erano presenti nel sistema e, al più, ne acuisce i dolori. Ai governanti spetta il compito di decidere, appunto, la soluzione. Questo ragionamento ci richiama al famoso assunto schmittiano: “Sovrano è colui che decide sullo stato d’eccezione”

Come usciremo dalla crisi? Lo deciderà chi governerà questo passaggio cruciale e drammatico.

Un altro fattore gioca un ruolo determinante nel governo della crisi: il tempo. Infatti, altra caratteristica intrinseca al concetto stesso di crisi è la sua assoluta transitorietà. Quanto durerà questa volta? Difficile dirlo. Quello che è certo, però, è che chi governerà questo lasso di tempo deciderà gli assetti sociali, economici e politici dell’Europa per i prossimi decenni.

Non possiamo permetterci ritardi. Il tempo della politica, ragionava il Machiavelli, è la puntualità. Adesso è necessario afferrare il momento di passaggio, il punto di crisi del sistema e ridisegnare il corso della storia, presente e futura, di questo continente.

Ragionare sul significato di crisi non è un esercizio di mero diletto. Queste considerazioni ci introducono al secondo punto di cui sopra. 

Se è vero che l’assetto istituzionale europeo, stante l’attuale stato di cose, non concede ampio margine di manovra alla politica, allora è anche vero che la facoltà di giudizio, distinzione e decisione rimane in capo alla élite economica e tecnocratica. Ciò vuol dire che, senza un rinnovato afflato politico di una certa consistenza, l’Europa – e questa probabilmente è la migliore delle possibilità - vivrà una nuova stagione di liberismo, forse ancora più pericolosa di quella precedente, nella quale le istituzioni sovranazionali continueranno a mancare di legittimità democratica e a prestare il fianco alle scorribande dei grandi interessi economici. 

Al peggio, potremmo assistere alla balcanizzazione dell’Europa e al rinvigorimento dei movimenti nazionalisti, che metterebbero in pericolo il sistema dei diritti di libertà e la pace tra gli stati. Un terribile ritorno a un passato che volevamo definitivamente alle nostre spalle. 

In entrambi i casi, comunque, saremmo destinati a diventare il “il giardino di casa” di qualche altra potenza e ad interpretare il ruolo di comparsa sullo scenario geopolitico.

La politica ha oggi l’arduo compito di riappropriarsi di nuovo del comando e del potere di decisione, di recuperare quel primato senza il quale le è impossibile far prevalere il bene comune sugli interessi privati di qualche potere economico. Ed è del tutto evidente che è compito della sinistra assumere su di sé questa sfida, come discriminante radicale della sua missione. Ma bisogna fare presto e bene.

E qui giungo al nocciolo di questo scritto: se si accetta questo compito, è possibile, nella teoria e nella prassi, prescindere dal campo di azione europeo? 

E‘ giunto il momento per le forze progressiste europee di condividere analisi e prassi. Bisogna assolutamente rompere gli indugi e intraprendere il cammino dell’unità del campo socialista europeo. Date queste condizioni, non si può rimandare ulteriormente. 

E‘ compito della sinistra europea iniziare la battaglia per un’Europa istituzionale democratica e finalmente unita politicamente. Un’Europa che si doti degli strumenti adeguati alla riconquista di quel primato della politica che si è smarrito con l’avvento dell’egemonia liberista. L’asse tra capitalismo e democrazia s’è incrinato. La sua rottura rischia di avere un carattere conflittuale, con la possibile nefasta conseguenza che si ripresentino quelle derive reazionarie e simil-autoritarie che spesso si accompagnano a crisi come queste. 

E’ necessario, dunque, aprire un nuovo cantiere che riesca a tenere insieme la questione democratica con quella del superamento del modello economico capitalista. 

Le istanze dei cittadini europei necessitano di una sinistra continentale che sia di nuovo portatrice di pensiero e visione di insieme alternativi al modello tecnocratico e liberista. 

O la sinistra assolverà questa funzione, oppure assisteremo impotenti all’ineluttabile declino dell’Europa. O sarà in grado di assumere su di sé questo compito, oppure semplicemente non sarà.


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