La maternità surrogata e il crogiolo delle ipocrisie
par UAAR - A ragion veduta
venerdì 8 agosto 2014
Tra le tante tecniche per sopperire ai deficit procreativi di una coppia vi è quello della maternità surrogata, volgarmente definita “utero in affitto”. La fecondazione avviene in vitro, generalmente utilizzando il seme di un partner maschile e un ovulo che può essere dell’eventuale partner femminile o di una donatrice. La gravidanza viene poi portata avanti da una donna “portatrice” che chiaramente non è genitrice biologica, quindi l’intero processo può coinvolgere a vario titolo fino a quattro persone. Molti paesi consentono il ricorso a queste tecniche e le regolamentano, alcuni ammettendone anche il fine di lucro altri consentendola solo come una forma di donazione. Il variegato quadro europeo è descritto in un documento della Direzione Generale delle Politiche Interne del Parlamento di Strasburgo.
L’Italia, neanche a dirlo, non consente la surrogazione di maternità. La logica conseguenza è che chi desidera un figlio con il proprio patrimonio genetico è costretto, portafogli permettendo, a rivolgersi altrove, e come avvenuto in passato nel caso della fecondazione artificiale si ottengono due categorie: chi non ha problemi di spesa va in paesi ricchi che offrono maggiori garanzie, come ad esempio alcuni stati degli Usa in cui hanno potuto usufruirne vip del calibro di Robert De Niro e Dennis Quaid, mentre chi deve fare i conti con un budget limitato ripiega su destinazioni low cost come l’Ucraina, mettendo in conto anche la possibilità di rimanere vittime di raggiri e ricatti. Dopo il parto il neonato viene registrato come figlio della coppia biologica che quindi può tornare in Italia e chiedere la trascrizione dell’atto di nascita, in barba alle ipocrite leggi italiane che, nel tentativo di tutelare assurdi diritti di bambini non ancora nati, di fatto consentono solo a chi è economicamente facoltoso di sconfiggere le proprie patologie, oltre che sconfiggere la morale imposta da uno Stato che magari non sarà etico, ma nemmeno tanto laico come vorrebbe far credere.
Tuttavia l’Italia è in buona compagnia per quanto riguarda queste problematiche. Un’altra nazione con problemi simili è l’Australia, da cui è arrivata negli ultimi giorni notizia di una storia che purtroppo non ha avuto un lieto fine. In questo caso la gravidanza per conto degli aspiranti genitori australiani è stata portata avanti dalla signora Pattaramon Chanbua, ventunenne tailandese con già alle spalle due figli suoi e una serie di debiti che la portano, dopo aver avuto rassicurazioni sul fatto che non ci sarebbe stato un rapporto sessuale e che l’ovulo fecondato in vitro non sarebbe stato il suo, ad accettare l’impegno a fronte di un compenso equivalente a circa 11 mila euro. Al terzo mese di gravidanza la prima sorpresa: nell’utero non c’è un solo bambino ma due, un maschio e una femmina, così la coppia australiana alza la posta di un ulteriore 15%. I problemi veri arrivano però un mese dopo, quando si scopre che il feto maschio è affetto dalla sindrome di Down. Un duro colpo per i futuri genitori che, stando alla versione della donna, mettono subito le mani avanti, facendo presente che non intendono farsi carico del bambino e chiedendo alla madre portatrice di abortirlo. La donna però rifiuta l’aborto perché ciò costituirebbe peccato per la sua fede, il buddhismo, quindi porta a termine la gravidanza e tiene il bambino maschio dandogli il nome di Gammy, cedendo invece la femmina sana.
Secondo quanto ha dichiarato alla stampa lei si sente in colpa per il bambino: «Si è trattato di un errore commesso dagli adulti, perché dev’essere lui a patirne le conseguenze?» ha dichiarato, aggiungendo: «Ho scelto di averlo, non di fargli del male. Lo amo. È stato nel mio grembo per nove mesi, è come se fosse figlio mio e lo tratterò come gli altri miei figli». La signora ha anche lanciato un appello alle donne tailandesi perché non pensino solo al denaro ma considerino anche il pericolo che qualcosa vada storto come nel suo caso. E ha ragione, perché in assenza di garanzie la portatrice diventa l’anello più debole della catena.
In realtà la tragica situazione si sarebbe potuta evitare, visto che stiamo parlando di una fecondazione in vitro, con una semplice diagnosi preimpianto, ma sarebbe stato necessario che il tutto si fosse svolto alla luce del sole e con un minimo di protocollo a garanzia dei diritti di tutti. Quando invece determinate operazioni si svolgono in situazioni di semi clandestinità, quando non di totale clandestinità, ecco che vengono meno i diritti basilari sia dei genitori che dei “geniti”. E poiché al peggio non c’è mai fine, dopo il parto si è scoperto che il bambino è anche affetto da una grave malformazione cardiaca che potrebbe portarlo alla morte, per cui si renderanno necessari una serie di costosi interventi chirurgici e di cure che la signora Chanbua non sarà in grado di affrontare. Per farvi fronte è stata avviata una campagna di raccolta fondi che in soli 12 giorni ha già totalizzato ben 200.000 dollari, ossigeno puro per la piccola vittima dell’ottusità umana.
Le reazioni sono state tutte di sdegno, anche se non tutte focalizzate sul vero problema. Le autorità sanitarie tailandesi hanno dichiarato che, in base alle leggi dello Stato, l’unica maternità surrogata possibile è quella di una coppia sposata che si rivolge a una parente disponibile a portare avanti la gravidanza senza alcun corrispettivo. Il punto è che finora ci si è sempre ipocritamente voltati dall’altra parte, perché il business degli uteri in affitto è comunque redditizio e in un paese povero come la Thailandia non ci si può permettere di rifiutare del denaro. Dall’altra parte, la totale chiusura dell’Australia su questo tema ha fatto sì che numerose coppie, sia etero che omosessuali, si rivolgessero laddove c’è l’offerta, dalla Pattaramon Chanbua di turno, e infatti Sam Everingham, direttore dell’organizzazione Families Through Surrogacy, dice chiaramente che questo non è il primo caso del genere. Per Everingham è necessario che le coppie vengano adeguatamente formate prima di intraprendere qualunque pratica di surrogazione, affinché comprendano i potenziali rischi a cui vanno incontro. Noi aggiungiamo che non solo gli aspiranti genitori, ma anche le surrogate devono intraprendere un percorso di formazione per acquisire la necessaria consapevolezza. Non si può permettere che tutto avvenga nell’ombra, come quando le mammane facevano stragi di giovani donne che non avevano alternative per abortire.
La direttrice di un’altra organizzazione che si occupa di maternità surrogata, Surrogacy Australia, ha giustamente definito scioccante la vicenda, ma allo stesso tempo spera che si tramuti in un passo positivo verso una migliore regolamentazione. «Naturalmente non pensiamo che vada proibita» ha detto, «pensiamo che debbano esserci delle regole e che la surrogazione debba essere più accessibile, perché è questo il motivo che spinge la gente ad andare oltremare». Il premier australiano Tony Abbot (un cattolico particolarmente retrivo) si è invece limitato a dire che si tratta di una storia incredibilmente triste, lasciando intendere che si potrebbe fare qualcosa per sostenere la famiglia di Gammy. Nessun accenno alla possibilità di fare qualcosa perché le cose cambino. Giammai.