La libertà degli eletti, il sacrosanto principio del "divieto di vincolo di mandato"

par Giantonio
mercoledì 6 giugno 2018

"Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". (Art. 67 Costituzione Italiana)

Questa articolo della Costituzione afferma in maniera netta e precisa uno dei principi che sta alla base della (nostra) democrazia rappresentativa. 

Il cardine su cui poggia è la centralità del Parlamento, garantendo così la libertà di espressione, assicurata a tutti i cittadini a norma del celeberrimo articolo 21, a maggior ragione ai membri eletti in Parlamento.

Questo assioma costituzionale trova le sue radici storiche in un discorso pronunciato dal filosofo Edmund Burke, alla fine del XVIII secolo, prima ancora della Rivoluzione Francese.

Il filosofo britannico di orgini irlandesi, come riporta Wikipedia, nel suo famoso "Discorso agli elettori di Bristol, tenuto il 3 novembre 1774, dopo la sua vittoria elettorale in quella contea, propugnò la difesa dei principi della democrazia rappresentativa contro l'idea, da lui considerata distorta, secondo cui gli eletti dovessero agire esclusivamente a difesa degli interessi dei propri elettori:

"Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell'intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale"

Ebbbene, questo principio fu poi ripreso dalle Costituzioni dei Paesi occidentali, come la Francia e ovviamente l'Italia, con lo Statuto Albertino prima e la Costituzione Repubblicana poi.

Ciononostante, nel nostro Paese, soprattutto nelle ultime legislature con il forte incremento dei passaggi da un partito all'altro, spesso con esiti fondamentali per le sorti dei Governi, tale principio viene messo fortemente in discussione.

Questo perché, pur avendo gl eletti la facoltà di cambiare schieramento una volta entrati in Parlamento se in contasto con il proprio partito e/o coalizione, tale pratica è sfociata in veri e propri casi di trasformismo politico.

Le elezioni del 2013 hanno visto il prorompente arrivo sulla scena politica del movimento 5 stelle, fondato dal comico Beppe Grillo, che prese poco più del 25% dei voti. 

Lo stallo politico dovuto alla mancanza di una maggioranza parlamentare e alla conseguente nascita del Governo Letta, a guida PD tenuto in vita dall'appoggio delle forze (avversarie alle elezioni) di centro-destra, portò a gridare (anche grazie ai meccanismi di formazione delle liste previsti della legge elettorale allora vigente, il cd. Porcellum), soprattutto dagli esponenti del movimento, allo scandalo e al "ribaltone".

In difesa dell'articolo 67 si spinse il politologo Giovanni Sartori, defunto da poco più di un anno, con un editoriale sul Corriere della Sera del 17 aprile 2013, secondo cui:

"(il divieto di vincolo di mandato,ndr) istituisce la rappresentanza politica (di diritto pubblico) dei moderni. Senza questo divieto si ricadrebbe nella rappresentanza medioevale, nella quale, appunto, i cosiddetti rappresentanti erano ambasciatori, emissari, portavoce che «portavano la parola» dei loro padroni e signori. Il loro mandato era imperativo perché dovevano solo riferire senza potere di trattare"

Se, quindi, per Sartori, è evidente la sua "ragion d'essere costituzionale (ineliminabile)", il tema del vincolo di mandato è tornato centrale anche nella campagna elettorale del 2018, che ha visto nascere, dopo un iter travagliato e burrascoso, un governo guidato dalle due forze che hanno preso più voti, cioè Lega (che però si era presentata in coalizione con Forza Italia e altre partiti di centrodestra) e M5S.

Infatti, nel contratto di governo stipulato dopo le elezioni e sottoscritto (senza nessun valore giuridico, è chiaro) dai due leader, cioè Matteo Salvini e Luigi Di Maio, ci sono chiari riferimenti alla modifica dell'istituto:

"Occorre introdurre forme di vincolo di mandato per i parlamentari, per
contrastare il sempre crescente fenomeno del trasformismo. Del resto,
altri ordinamenti, anche europei, contengono previsioni volte a
impedire le defezioni e a far sì che i gruppi parlamentari siano sempre
espressione di forze politiche presentatesi dinanzi agli elettori(...)"
(pagina 35 su 58, versione definitiva del 18 maggio 2018)

Se non si può condividere appieno la posizione del compianto politilogo, altrettanto non si può non affermare pure come la pratica abbia preso una piega poco apprezzabile.

Una soluzione, certo, potrebbe essere, quella di cambiare le modalità di formazione delle liste dei partiti da proporre agli elettori.

La legge elettorale vigente, il cd. Rosatellum bis, non prevede la possibilità di indicare preferenze sulla scheda, anche se, su dettame della Corte Costituzionale, le liste sono state accorciate, da un minimo di 2 ad un massimo di 4 candidati così da poter essere facilmente riconoscibili dall'elettore.

Questo bastera? Non lo sappiamo, ma sappiamo che si dovrà trovare il modo per far sì che questo che è un prinpipio cardine della democrazia così come la conosciamo oggi, non appaia come un privilegio di cui si abusa minando così la fiducia e la credibilità della politica.


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