La grande fuga
par Gregorio Scribano
mercoledì 25 giugno 2025
Le urne vuote non fanno rumore, ma fanno riflettere. Raccontano un disagio profondo, un’apatia che non è semplice disinteresse, ma una ferita aperta, una distanza siderale tra politica, Stato e cittadini.
I dati delle ultime consultazioni referendarie – con affluenze del 30% – non sono solo numeri: sono la radiografia impietosa di una democrazia in affanno. In un Paese dove, un tempo, il voto era conquista e responsabilità, oggi si trasforma sempre più in opzione trascurabile. E la partecipazione, da diritto condiviso, diventa eccezione rara, riservata ai pochi che ancora ci credono.
Nei piccoli Comuni, dove il volto del candidato è familiare e la politica ha ancora un nome e un cognome, la scintilla resiste. Ma è una fiamma fioca, assediata da un contesto più ampio che sa di resa. Perché la disillusione non nasce per caso. È il frutto avvelenato di decenni di retorica, promesse tradite, scandali e trasformismi. È figlia di una politica che ha spesso perso credibilità, e di istituzioni che, invece di rispondere, si sono trincerate dietro slogan e tecnicismi.
Il voto non è solo un gesto individuale: è l’anello che tiene unita la catena tra rappresentati e rappresentanti, tra elettori ed eletti. Ma oggi, quel legame si è spezzato. E il paradosso è che chi non vota non si sottrae al potere: semplicemente lo cede ad altri, abdicando alla possibilità di incidere sul proprio futuro assecondando il mantra del tanto sono tutti uguali!
E mentre le urne si svuotano, anche il Paese si svuota. Gli italiani, a fronte di stipendi da fame, non fanno più figli. In dieci anni, più di un milione di italiani ha scelto di partire. Un esodo silenzioso ma devastante, che coinvolge soprattutto i giovani, spesso formati, brillanti, capaci. Non cercano solo stipendi più alti, ma dignità, riconoscimento, possibilità. Se ne vanno dove il merito conta, dove le regole sono chiare, dove l’ascensore sociale non è fermo. E chi resta, troppo spesso si sente prigioniero di un sistema che non premia, non ascolta, non cambia.
Non partono solo i giovani. Sempre più anziani, pensionati, si trasferiscono all’estero per trovare condizioni di vita più sostenibili. È un’Italia che emigra in silenzio, che si disgrega pezzo dopo pezzo, perdendo non solo capitale umano, ma anche memoria storica, coesione, identità.
Nel frattempo, il mercato del lavoro italiano fatica a trovare operai, artigiani, tecnici qualificati. Figure fondamentali per la tenuta sociale ed economica del Paese, che oggi mancano. Abbiamo smesso di costruire, di formare, di credere. Manca la forza del presente e manca la fiducia nel futuro. E così, nel vuoto lasciato da chi parte e da chi non partecipa, l’Italia rischia di perdersi.
Serve un cambio di rotta. Serve una politica che non insegua il consenso a breve termine ma coltivi visione, coerenza, credibilità, competenza, serietà. Servono riforme coraggiose: sul lavoro, sulle pensioni, sulla scuola, sulla sanità, sull’accesso reale ai diritti. Ma, soprattutto, serve uno Stato che torni a investire nei propri cittadini, a scommettere su di loro, a considerarli risorsa e non un bancomat.
Perché prima ancora di chiedere alla gente di restare, o di tornare alle urne, è lo Stato che deve tornare ad esserci. Con i fatti, non solo con le parole. Con ascolto, non solo con proclami. Solo così si può ricucire un tessuto sociale che oggi è lacerato.
L’alternativa è una lenta, inesorabile irrilevanza. Una democrazia svuotata, un Paese stanco, incapace di riconoscersi e di guardare avanti.