La generazione tecnologica e senza cuore

par Voltaire
sabato 2 ottobre 2010

Cosa rimane delle grandi illusioni? Cosa resta della voglia di cambiare il mondo e il corso della storia? E della creatività al potere?

Guardiamo cosa erano e come siamo diventati.

E’ possibile che una generazione di sognatori abbia lasciato il passo a una generazioni di disillusi?

E’ possibile che non ci sia la forza di imporsi nuovi traguardi?

Mi rivolgo a coloro che adesso sono sulla soglia dei 30 anni, nati intorno al 1980, sul finire di un millennio e di un secolo, denso di lotte e di conquiste.

Una generazione che ha avuto tutto. E non ha dovuto lottare per alcun traguardo. Ha vissuto nell’abbondanza di beni materiali ma soprattutto immateriali.

Pace, democrazia, libertà questo è il contesto in cui sono nate le ultime generazioni di giovani europei. Godono, a volte inconsapevolmente, di frutti raccolti da altri.

Qualcuno che è venuto prima di loro si è immolato, contro gli assolutismi, per il diritto al voto, per l’uguaglianza, per la libertà. Libertà di credo, libertà di espressione, libertà sessuale.

Io, i miei coetanei, la mia generazione viviamo in una società la cui struttura portante è stata determinata, dalle lotte costanti di uomini e donne che nel corso dei secoli, hanno impiegato le loro forze e le loro risorse per un idea, per un sogno più alto e più nobile della realtà in cui vivevano.

Questi uomini e queste donne, erano supportati da ideali politici, religiosi, civili, che indicavano un diverso orizzonte possibile, forse lontano forse irraggiungibile.

Noi invece siamo una la prima generazione post ideologica. Non abbiamo provato il Fascismo, non abbiamo fatto parte della Resistenza, non abbiamo scritto la Costituzione, non abbiamo contribuito al boom economico degli anni ‘60, non ci siamo divisi in fazioni fra rossi e neri negli anni ’70. Siamo stati iper protetti e viziati.

L’unica cosa a cui abbiamo assistito come spettatori è stato l’arenarsi del comunismo nelle secche della storia. E l’attacco spettacolare dei terroristi islamici alle torri gemelle di New York.

Entrambi rimangono come passaggi essenziali delle vicissitudini mondiali ma entrambi non costituiscono una nuova spinta emotiva che produca moto di idee e progresso collettivo.

Dimentichi delle lotte del passato, siamo divenuti sia artefici che vittime degli unici due moti di massa che veramente caratterizzato il nostro vivere odierno, la rivoluzione consumistica e quella tecnologica.

Da persone con una propria coscienza individuale e collettiva, dove l’ambizione dell’io convive con il sogno di riscatto dell’intera società, siamo passati a coltivare esclusivamente noi stessi in un cammino solitario, che prevede sempre meno le possibilità di incontro e confronto.

Questo scollamento tra individuo e società è accentuato dai due luoghi, che velocemente stanno prendendo il sopravvento come scenario delle nostre esistenze, e sempre più ne determinano il corso, lo spazio dai mezzi tecnologici e quello del mercato.

Davvero siamo destinati all’apatia collettiva? E alla polverizzazione individuale della nostra società?

Forse è giunto il momento di porsi delle domande che non riguardino solamente la nostra sfera personale e il nostro gruppo di appartenenza, forse dovremmo re incominciare a chiederci dove si annidano le sacche di ingiustizia ed discriminazione della nostra società.

Forse il processo di democratizzazione a cui la storia ci ha portato non è completo.

Dovremmo essere noi a portarlo a compimento e renderlo veramente funzionante ed efficiente.

Assistiamo quotidianamente ad una messa in discussione dei principi su cui si fonda il nostro vivere collettivo. L’unico modo per difendere Libertà e Giustizia, beni supremi e mai pienamente raggiunti sarebbe quello di non considerarli beni acquisiti, ma impegnarci ogni giorno al loro pieno compimento.

La mia generazione dovrebbe incominciare a pensare che il corso della Storia non lo si deve solamente subire, a volte lo si può anche condurre.

Per cosa vale la pena vivere? E questo che dovremmo chiederci sempre più spesso, se no come afferma Pasolini nelle Lettere Luterane “i destinati a morire insegneranno sempre una certa obbligatoria tendenza all’infelicità” .

 


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