La doppia morale, la minorità permanente e la logica da ultras: l’indignazione intermittente degli italiani

par Giuseppe Riccardi
venerdì 16 dicembre 2011

Vent’anni dopo: quando, a destra (e a sinistra), i nostalgici di B. scoprono il conflitto di interessi. Ed i poteri forti.

L’evidente malafede di chi per quasi vent’anni ha votato, più o meno consapevolmente, Mediaset e denuncia adesso i poteri forti e il conflitto di interessi, va di pari passo con l'indignazione dei complici, dei tanti distratti e di quelli che in questi anni sono stati zitti su condoni fiscali, edilizi e sanatorie di ogni tipo.

La doppia morale di costoro non finirà mai di stupirmi. Chiunque sia iscritto a qualche social network avrà notato il grande attivismo di questi account finora dormienti o sin qui perlopiù impegnati in un’assurda gara per dimostrare chi ha rubato di più tra i Moratti, Berlusconi e gli Agnelli. Miliardari che magari licenziano operai per acquistare giocatori appena alfabetizzati che hanno reso milionari.

Nell’attesa che costoro stabiliscano il vincitore di questa competizione in cui vincono tutti, sarebbe bene che riflettessero almeno un attimo su quanto sia assurdo e contraddittorio un post contro l’esosità della casta, preceduto da altri che invece incensano le performance sui campi da gioco di milionari coi calzoni corti. Chi poi ha poi postato a oltranza sul caso Penati, mentre ignora l’affaire Nicoli Cristiani (vale anche il contrario, evidentemente), dovrebbe spiegarci la differenza, se c’è, tra un bandito di destra e uno di sinistra.

Per tutti vale la presunzione di innocenza, ma se c’è una differenza tra il caso Penati e il caso Nicoli Cristiani o Scajola è che, almeno finché non sarà scagionato, il primo non sarà ricandidato, gli altri probabilmente sì e, altrettanto verosimilmente, rieletti da quello stesso elettorato che continua a sostenere un partito che in Campania ha ancora, ad esempio, un condannato in due gradi di giudizio per reati di tipo associativo, Camorra, nella fattispecie.

La differenza non è tanto nei vertici dei partiti, ma nell’elettorato che ragiona in termini di appartenenza. Logica da ultras, nel calcio come in politica. Come spiegare altrimenti che in termini di logica fideistica il rimpianto per un Governo in cui un indagato per mafia viene scelto al dicastero dell’Agricoltura, senza che la scelta abbia portato a sostanziali perdite di consenso per i partiti del passato esecutivo? Di qui la morale “a geometria variabile” di chi è abituato a fare distinzioni non sulla base della gravità del reato, ma secondo il colore politico di chi lo ha commesso, o sulla sua provenienza, italiano o immigrato, del nord o del sud e così via. 

Gli italiani, com’è noto, non hanno memoria e, secondo taluni osservatori, politicamente sono in uno stato di minorità mentale permanente. Come se non bastasse, hanno la tendenza a darsi, in genere per un ventennio, all’uomo forte di turno, cui firmano volentieri cambiali in bianco. Poco importa se non gli lasciano le chiavi di casa o se non gli affidano la figlia.

La logica del “ghe pensi mi” ci ha portato al Governo Monti, in cui persone indubbiamente competenti e qualificate hanno margini di manovra molto stretti a causa dei veti incrociati di una maggioranza tanto ampia quanto incoerente di forze politiche condannate, dalla gravità della situazione, a stare forzatamente insieme.

Dal giorno stesso dell’insediamento, Libero, il Foglio e il Giornale hanno cercato di screditare il nuovo esecutivo, senza che il mandante, in improbabili panni da statista, lo sfiduci apertamente, dati i sondaggi. Si presta più o meno consapevolmente a quest’operazione anche la sinistra cosiddetta radicale, ansiosa di rientrare in Parlamento, e in forze stando ancora alle intenzioni di voto, e il Tribuno in servizio permanente Di Pietro.

Il quale è tanto duro e puro in tv quanto distratto nella scelta dei candidati, specie al sud, dove ha da tempo imbarcato schiere di ex notabili dc molto chiacchierati e con annesse vaste e fameliche clientele. Il ruspante ex magistrato è peraltro in ottima compagnia, se è vero come è vero che, in tante aree del Paese, PD e PDL sono praticamente indistinguibili e intercambiabili, come in Molise, dove il centrosinistra è riuscito a perdere, candidando un ex Forza Italia.

Sconfitti, i dirigenti si sono guardati bene dal fare mea culpa, ma si è trovato il capro espiatorio, i grillini nella fattispecie. Relativamente ai poteri forti, veri o presunti, trovo del tutto razionale che la più grande banca d'affari del mondo si sia rivolta a gente della competenza di Draghi o delle relazioni internazionali di Monti e non, ad esempio, al miles gloriosus Brunetta, premio Nobel dell'economia mancato.

La propaganda così alimentata ad arte ha facile presa su gente semplice che vive in un mondo in cui le cose o sono bianche o nere. Gente forte di poche idee, ma confuse, e di grandi incrollabili certezze, per cui, ad esempio, chiunque si sia opposto all’autocrate è automaticamente comunista, che non ama le sfumature e ignora come si possa lavorare per un'azienda senza vendersi a questa. Come invece hanno fatto spudoratamente con Mediaset molti di quelli che oggi parlano di poteri forti.

Quanto alle congiure della finanza mondiale, fermo restando le chiare responsabilità delle banche nella crisi attuale, appaiono una mera riedizione del complotto delle potenze demoplutocratiche, dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion in cui spesso si intravedono chiare tracce di antiamericanismo e antisemitismo. Lo stesso che appare a volte dietro la legittima, anzi doverosa, avversione alle politiche israeliane in Medio Oriente.

Molti di quelli che oggi sostengono queste tesi paranoiche, i dietrologi professionisti, i cospirazionisti a tempo pieno, sono spesso gli stessi cui dobbiamo il fatto che digitando su youtube o google 11 settembre 2001, compaiono quasi solo deliranti teorie dell’autoattentanto (ad opera, manco a dirlo, dei sionisti). E’ così tranquillizzante individuare un nemico, quale che sia, come è bello vivere con tante certezze. Giuste o sbagliate, poco importa. Fa sorridere che poi a gridare al conflitto di interessi, reale, ad oggi solo potenziale, di molti membri dell’Esecutivo, sia soprattutto chi in questi anni non ha visto quello del Teleimbonitore quotidianamente e spudoratamente operante in tutti i settori dell’economia.

Sulla capacità di opporsi a poteri forti, veri o presunti, mi fido più di Monti che, come commissario UE, ha multato Microsoft per oltre mezzo miliardo di euro per abuso di posizione dominante e bloccato la fusione GE-Honeywell (operazione tra due delle più grandi e potenti aziende del mondo in cui avrebbero guadagnato lautissime commissione proprio le banche d’affari di Wall Street che avrebbero messo Monti a Palazzo Chigi) che di chi non è riuscito per due decenni ad approvare una legge antitrust o sul conflitto di interessi appena decente.

Per non parlare dei sedicenti liberali che hanno difeso un monopolio di fatto operante nel settore televisivo, in cui l’oligopolista ha potuto spesso nominare i vertici del suo concorrente, si fa per dire, pubblico. Ma non è il caso di scomodare e usare impropriamente categorie politiche che, comunque la si pensi, hanno una loro dignità e una tradizione per catalogare tendenze che, se proprio volessimo caratterizzare politicamente, dovremmo chiamare anarcoidi, di una certa parte dell’elettorato berlusconiano che, in effetti, il Piazzista non ha creato, ma piuttosto sfruttato ai propri fini.

Oltre alle professioni economicamente privilegiate in quanto difese dalla concorrenza da ordini corporativi, il cui consenso è ragionato e dettato da questioni di poche, e molto più della Confindustria, il vero nocciolo duro dell’elettorato di B. è rappresentato da una parte importante dei commercianti, spesso al dettaglio, il cui reazionario fanatismo pro Silvio è inversamente proporzionale al fatturato: si lamentano per tasse che pagano nella misura che più gli aggrada, come i Tea Party d’oltreoceano sognano tagli di tasse, ma, al contrario di quelli, non sono disposti a pagare per l’istruzione, la sanità e lo stato sociale in genere, di cui pure usufruiscono e abbondantemente.

Scarsamente scolarizzati, si sentono la spina dorsale del Paese, se danno anche un solo posto di lavoro, spesso è in nero, e pretendono tasse americane e servizi europei. Ma battere uno scontrino sì e uno no, per tanti è una questione di sopravvivenza. Si può però più facilmente scusare chi, in tante aree del Paese, oppresso dall’esosità dei clan, si rifiuta di pagare le tasse ad uno Stato assente, che non fa lo Stato. E tutti sanno che le vere facce degli evasori non sono quelle degli spot governativi contro “i parassiti della società”, non hanno sempre barba sfatta e caratteri meridionali, ma abbronzature da yacht e caratteri spesso nordici.

I dati sulla provenienza geografica dei capitali scudati, in questo senso, non potrebbero essere più chiari. Agli ascari berlusconiani, per i quali persino Scalfari che scriveva sul Mondo di Pannunzio sarebbe un comunista, è inutile spiegare che la tassazione progressiva sui redditi è figlia dell’Italia liberale. Dopo le passate elezioni politiche, Marc Lazard, illustre politologo della celeberrima Sciences Po, tappa obbligata nel cursus honorum degli enarchi ed esperto di cose italiane, cui dobbiamo bellissime analisi quasi sempre sbagliate, aveva detto che il Cavaliere, questa volta, sarebbe stato diverso.

Ormai anziano, sempre secondo l’accademico transalpino, si sarebbe preoccupato di lasciare un buon ricordo di sé, evitando le leggi ad personam. I fatti hanno mostrato il contrario. B. non può forzare, non ne ha la forza. La sua popolarità è ai minimi, la presa sul suo stesso partito debolissima e B. sarebbe perdente in tutti gli scenari, a due come a tre coalizioni. Per cui se anche dovesse provare a far cadere il Governo, tanti dei parlamentari a cottimo che lo hanno in passato sostenuto, lo mollerebbero, terrorizzati come sono dalle urne.

Per valutare compiutamente la manovra sarebbe il caso di attendere che l’iter parlamentare sia finito con l’approvazione definitiva, nella speranza che sia emendata, mitigata nei suoi risvolti sociali e integrata da tutti i provvedimenti che mancano, l’ici sui beni ecclesiastici non strettamente legati al culto, ad esempio. Ma Monti, sulle frequenze tv da mettere all’asta, oltre che attenuare una finanziaria così dura con tante categorie deboli, ha la possibilità di fare emergere, agli occhi dell’opinione pubblica tutta, il veto che sul tema gli è stato imposto da B.

E' l’opportunità storica di riuscire dove il centrosinistra ha sempre fallito, per manifesta incapacità, malafede e per mancanza di reale volontà di andare a fondo, tacciando definitivamente quanti lo accusano di essere succube di taluni interessi e mostrando il coraggio mostrato in passato contro i monopoli.

Non so se abbia ragione l’Umberto, detto Bostik per l’attaccamento alle poltrone romane, che motiva le dimissioni di B. con le pressioni subite dai manager delle sue aziende, “l’unico caso in cui gli interessi delle sue aziende corrispondono a quelli del Paese”, come ha efficacemente detto Gramellini, con l’acutezza e l’ironia che gli sono propri.

Ma Monti sul beauty contest può costringere B. a smettere finalmente i ridicoli abiti da responsabile, dello statista cui sta a cuore l’Italia che gli stanno, peraltro, visibilmente stretti. B. torni il Caimano di sempre e provi a far cadere l’esecutivo Monti e mostri per l’ennesima volta cosa gli sta veramente a cuore, i suoi molto privati interessi.

Tanto i suoi pasdaran faranno, al solito, spallucce e continueranno a sostenerlo. E quanto al fino a ieri fedelissimo Bossi, se la Lega, in ripiegamento sulla Padania secondo lo stesso, stanco copione che segue da vent’anni, non dovesse sostenerlo, tolga ai leghisti il simbolo. Che è legittimamente suo, avendolo, per la prima volta forse in vita sua, pagato. E a carissimo prezzo.


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