La disgrazia giuridica. L’esempio napoletano della prova scritta per l’esame d’avvocato

par Marco Bozza
venerdì 24 dicembre 2010

La nuova generazione, fatta di migliaia di ragazzi che agitano in questi giorni la piazza, porta all’attenzione non sono della politica ma anche dell’opinione pubblica tutta, profondi disagi. Il disagio di trovarsi con un diritto allo studio sommerso, con un presente nullo ed un futuro inimmaginabile. A preoccupare di più la generazione del “nulla da perdere” (definizione puramente sociologica) è la quasi inesistente prospettiva occupazionale. Dal lavoro pubblico al privato, passando per il girone infernale della libera professione, tutto sembra mostruosamente chiuso. Si ha l’impressione di entrare in un tunnel senza via d’uscita, percorrere il quale è impossibile vista l’assenza di fari.
 
Un concorso pubblico, così come l’acquisizione di un’abilitazione per l’esercizio di un’attività professionale, implica sacrifici immani e delusioni catastrofiche. Il 14-15-16 dicembre scorso, si è tenuta la prova scritta per l’esame di avvocato. Prova consistente nella redazione di un parere in diritto civile, uno in diritto penale, ed infine la redazione di un atto giudiziario. Migliaia di ragazzi, armati di codici, hanno presso d’assalto le diverse sedi d’esame nei rispettivi distretti di Corte d’Appello. Ovviamente agli occhi di molti può sembrare un esame come tanti, ma se hai la sfortuna di far parte dell’esercito dei quasi settemila della Corte di Appello di Napoli, il gioco diventa davvero duro. Non essendo, logisticamente parlando, prevista né la consegna dei codici anticipata né tantomeno il banco assegnato, per tre giorni si è costretti a fare la fila alle prime ore dell’alba per accaparrarsi i posti strategici.
 
Una tre giorni in cui si entra col buio mattutino e si esce col buio serale; una tre giorni in cui visto l’alto numero dei respinti ogni anno, s’incontrano sempre le stesse facce; una tre giorni in cui la dignità di essere umano viene messa all’angolo da una prova che definire farsa non è azzardato. Immaginate cosa significhi provare a concentrarsi in un padiglione con circa duemila persone ove regna sovrano un brusio che preme le meningi con una violenza inaudita. La cosa particolare è che in questa canea, c’è anche qualche giovane donna, aspirante principe del foro, che nel bel mezzo del proprio intento a sfogliare il codice per trovare la soluzione al caso in esame, viene gentilmente invitata al varco di competenza per ottemperare al rito dell’allattamento. Questo fa capire che la prima volta in cui la neo mamma si è cimentata in quest’avventura era nubile, ma vista l’impossibilità di essere chiamata avvocato, ha deciso di mettere su famiglia. A questo stress pazzesco, i futuri “azzeccagarbugli” devono fare i conti col meccanismo delle correzioni incrociate, la cui “saggezza” porta ad essere bocciati con dei compiti sui quali oltre all’annotazione dell’insufficienza non c’è altra motivazione del “mancato gradimento”. Non bisogna dimenticare la quantità di danaro che gira intorno ad un appuntamento simile: i corsi preparatori, l’alloggio, i codici annotati con la giurisprudenza, portano intere famiglie a dissanguarsi per una semplice abilitazione. S’intuisce bene come l’Italia sia un Paese preistorico, ove non è mai il più bravo e meritevole a trionfare attraverso il meccanismo della libera concorrenza, ma vengono sempre più premiati i poteri forti, gli interessi particolari i quali disgraziatamente tracciano il confine tra la beatitudine e la disperazione.
 
Il dramma vero però è che la gran parte dei beati sono degli autentici incompetenti ed imbranati. La grande democrazia italica, affonda anche in questo.

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