La crisi, il lavoro e il potere d’acquisto

par francesco
sabato 29 maggio 2010

La crisi italiana che ha portato il governo a una manovra da 25 miliardi e sacrifici per "tutti" (?) è l’ennesima riprova che la politica sociale attuata in Italia dal 1990 in poi risulta dannosa, sia alla popolazione, sia all’industria.

Cosa c’entra la crisi con la politica sociale? Si domanderanno in molti. All’apparenza niente, ma se andiamo in profondità nel tessuto socioeconomico, risulta evidente che il disastro a cui stiamo andando incontro deriva dalla discontinuità della politica della seconda repubblica rispetto alla prima. Fino agli anni ottanta, la politica socioeconomica era improntata su una distribuzione del reddito, o comunque esso veniva distribuito in base a criteri che cercavano di salvaguardare la capacità economica di quasi tutti gli italiani.

Questo anche grazie alle lotte operaie per un lavoro più sicuro e per stipendi più equi, che permettessero di poter acquistare quei prodotti necessari, non solo a loro, ma anche al sistema produttivo. Questo, assieme al lavoro a tempo indeterminato – che permetteva di avere un reddito sicuro -, al turnover – che permetteva un ricambio costante del personale e pertanto agevolava anche la riduzione dello stesso qualora l’azienda ne avesse bisogno – e al pensionamento di anzianità - che permetteva all’azienda di diminuire il personale senza licenziare, e al lavoratore di uscire (ma non obbligatoriamente) prima che diventasse poco produttivo e che l’azienda stessa cercasse di dimetterlo anzitempo con procedure costose per lo stato (prepensionamento). Inoltre, la rivalutazione periodica dello stipendio (scala mobile o contingenza), dava accesso al lavoratore a prestiti bancari senza il rischio di insolvenza.

Col venir meno di queste regole, è venuta meno anche la certezza e, di conseguenza, è scomparsa anche la possibilità, per gran parte della popolazione, di acquistare e investire; questo ha portato a un regresso dell’occupazione fissa e alla creazione (grazie alla legge Biagi) di una schiera di lavoratori a tempo determinato che sono da considerare, a tutti gli effetti, lavoratori precari; il che ha peggiorato ulteriormente la situazione. Considerando che le tasse si basano anche sulle persona reali (ad esempio i dipendenti) abbiamo meno lavoratori = meno tasse = meno entrate. Il risultato è il divario tra Pil e spese.

Da quanto detto sopra, risulta chiaro il nesso tra l’economia basata sul consumo e la possibilità della popolazione di acquistare i prodotti dell’industria; il lavoro del terziario tiene finché l’industria produce ricchezza, ovvero, finché l’industria mantiene l’occupazione e distribuisce ricchezza (non intesa come quantità, ma come potere di acquisto dei salari), ma se l’industria non produce ricchezza, viene meno il presupposto del consumismo e, di conseguenza, anche i settori del terziario cedono.

Certo, è vero che ci sono altri fattori di crisi quali: speculazione finanziaria, evasione fiscale, lavoro nero, speculazione edilizia, sprechi ecc., ma va considerato che questi fattori “vivono” della ricchezza prodotta e della capacità di acquisto dei cittadini senza la quale, forse non esisterebbero neanche.

Per concludere, se non si ripristina l’occupazione piena e la produzione, a poco serviranno i “risparmi”: a prevalere sarà una diffusa povertà del cittadino (povertà che va al di la della quantità di stipendio perché esso è legato ai prezzi, di fatto si innescherà una svalutazione della moneta).

Ma come arrivare alla piena occupazione se l’industria non riprende la produzione? Una ripresa che è legata, purtroppo, alla finanza mondiale e non più alla capacità produttiva e alla qualità del prodotto?


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