La casta dei pensionati

par alfadixit
venerdì 20 gennaio 2012

Che il nostro sia un paese per vecchi lo dicono i numeri, ma lo è a discapito dei giovani, cioè del futuro.

Parlare di pensioni nel nostro paese significa addentrarsi in un ginepraio spinosissimo. Questo perché da un lato si tratta di una materia complicata, una moltitudine infinita di casi, dal sistema retributivo al contributivo, al misto, pensioni di vecchiaia, di anzianità, di invalidità, private, degli enti locali, prepensionamenti e chi più ne ha più ne metta.

Ma soprattutto perché la pensione è, nell’immaginario collettivo, sinonimo di un diritto inalienabile che segna una svolta forte ed irreversibile nella vita dei lavoratori. L’agognata pensione si è storicamente riassunta, per la maggior parte delle persone oggi a riposo, con la regola del calcolo retributivo dopo 35 anni di versamenti, indipendentemente dall’età anagrafica.

Solo ultimamente, e non senza un mare di polemiche, i parametri sono stati variati con l’innalzamento graduale a 40 anni di contribuzione e con la definitiva archiviazione del sistema retributivo. Se ne deduce che con la suddetta “vecchia regola”, quella dei 35 anni, l’età anagrafica della pensione era, gioco forza, attorno ai 60 anni se non prima.

Ora basta un semplice calcolo matematico per capire che proprio questi pensionati non hanno versato abbastanza per aver diritto all’assegno che percepiscono, o per dirla in altre parole costoro vivranno per un certo numero di anni a carico della collettività. Secondo i parametri di calcolo più comuni infatti, se si considera un’aliquota dei contributi pari al 33% del lordo della retribuzione, una pensione percepita pari al 90% dell’ultima retribuzione netta e un’inflazione costante, pari ad esempio al 2,5%, ci si accorgerà che per “consumare” l’ammontare equivalente a 35 anni di contributi, ne bastano 17.

In altre parole dopo 17 anni di erogazione della pensione il “gruzzoletto” accantonato durante l’attività lavorativa sarà completamente esaurito, interessi compresi naturalmente.

Dal momento che secondo l’Istat, in Italia l’aspettativa di vita è oggi di 79 anni per gli uomini e 84 per le donne, chi è andato in pensione a 60 anni vivrà allegramente a carico della collettività per almeno quattro o cinque anni, in media fra uomini e donne.

E si badi bene che questo calcolo è basato sul metodo contributivo, cioè quello introdotto solo negli ultimi anni mentre, come si diceva, la maggior parte delle pensioni è stata calcolata col metodo retributivo, o con quello misto, metodi che sono assai più vantaggiosi per il lavoratore. La situazione è quindi ancora peggio di quanto il calcolo esprime, e di molto anche. E poi ci sono le pensioni sociali di chi non ha versato proprio nulla, quelle di invalidità, i baby pensionati.

Insomma, per farla breve, una larghissima parte di pensionati in Italia percepisce una pensione che non si è guadagnato, vive cioè appeso all’enorme albero della cuccagna dello stato sociale pagato, in definitiva, dai lavoratori, quelli veri. Queste considerazioni trovano ulteriore conforto nel fatto che un sistema pensionistico del genere non esiste in nessun paese del mondo dove, da sempre, l’età della pensione è invece di 65 anni e si percepisce in base a quanto versato, punto e basta.

E se volete fare confronti con altri sistemi eccovi serviti. Dice l’Istat che in Italia il tasso di occupazione dei lavoratori di età compresa fra i 55 e i 65 anni è del 36% contro il 56% della Germania, il 70% della Svezia e il 47% della media Europea. E la differenza non è certo dovuta ai disoccupati che in Italia sono soprattutto giovani, molto più che altrove. Sappiate inoltre che il nostro sistema eroga in media oltre l'80% dell'ultimo salario, percentuale che scende in Francia al 61% e in Germania al 58%. Altro che Babbo Natale.

Questi sono i numeri, puro calcolo insomma ma utile a capire la realtà, e come tutti gli scolaretti sanno, la matematica non è né di destra né di sinistra, non segue cioè l’opinione della Lega o della Camusso e neppure della Marcegalia, è matematica e basta. Per questo si sono susseguite negli anni numerose riforme sul tema, per mettere in sicurezza un impianto allo sfascio.

Si dice che ora però l’equilibrio è raggiunto e che in definitiva questo è il miglior sistema d’Europa. Sarà anche vero ma la ragione per cui negli altri paesi europei si accetta un sistema meno generoso, o forse più equo, è per poter dirottare le risorse sulla crescita, sulla ricerca, sui giovani, sul lavoro, sull’ambiente, giusto per fare qualche esempio. Noi abbiamo investito sulle pensioni, sul diritto alla pensione o forse sul privilegio alla pensione, in altre parole puntiamo al futuro cercandolo nello specchietto retrovisore.

Resta l’amarezza per come tale privilegio lo si scarichi sui giovani, per come a pagare siano i lavoratori, precari compresi naturalmente, mentre chi ne usufruisce a piene mani non sborsi una lira. Ma non si era parlato di equità, di sacrifici da parte di tutti, ed allora perché non penalizzare chi da anni percepisce, come si dice “a scrocco”? Ed invece niente, anzi sono tutti sulle barricate, vocianti, dai qualunquisti ai sindacati, tranne chi è penalizzato, ovviamente.


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