La Tunisia ed io

par patrizia mancini
lunedì 19 dicembre 2011

17 dicembre 2011. Tutte le radio trasmettono canzoni inneggianti al sacrificio di Mohamed Bou Azizi che un anno fa esatto si immolava fra le fiamme di fronte al Municipio di Sidi Bou Zid. E questa facile e scontata retorica mi dà un senso di fastidio, mi sembra che questa ingessatura della cosiddetta ”rivoluzione dei gelsomini”, questa sacralizzazione dell’evento possano sviare dai problemi che ancora questo paese si trova ad affrontare quotidianamente, così come sta avvenendo in questi giorni con la nomina del Presidente della Repubblica, Moncef Marzouki (Congrés de la Republique) e della squadra di governo capeggiata dal premier Hamadi Jbeli, del partito islamico Nahdha, celebrati con dosi massicce di ottimismo e ampollosità.

Il tasso di disoccupazione, secondo la Banca Centrale Tunisina, ha superato nel 2011 il 18% e fra i giovani raggiunge il picco catastrofico del 40% con le solite diseguaglianze fra le regioni costiere e quelle dell’interno. I prezzi al consumo sono aumentati del 4,4% rispetto al 2010 (0,4 % a novembre 2011 rispetto a ottobre 2011) e il governo si accinge a prelevare l’equivalente di 4 giornate di lavorative dal salario dei dipendenti pubblici per poter diminuire il deficit. E l’anno 2012 con i riflessi della crisi europea non dovrebbe vedere un maggiore afflusso turistico, né esportazioni in aumento.

Eppure, con la democrazia sono arrivati anche segnali dell’inizio di un grande dibattito all’interno dell’Islam fra chi ne sostiene l’interpretazione tradizionale e di chiusura alla contemporaneità (a volte con la violenza, come alcuni gruppi di salafiti) e chi invece ne difende l’interpretazione che con il suo corollario di controversie può tuttavia portare al progresso del pensiero e alla convivenza fra cittadini, uguali nei diritti e diversi nelle opinioni.

Questo popolo si è risvegliato all’indomani del 14 gennaio con questa immagine identitaria che sotto la dittatura era nascosta, repressa e negata e la sta svelando piano piano, con tutte le sue inevitabili contraddizioni. Certo, non posso non preoccuparmi quando i salafiti bloccano (ancora ad oggi) le lezioni della università della Manouba perché il regolamento vieta l’accesso agli esami delle studentesse con il niqab o se lo stesso presidente della Repubblica, per piaggeria nei confronti di Nahdha, sostiene che lui difenderà le donne con il niqab, quelle con il velo e le sefira (donne senza il velo), usando con questo termine una parola leggermente sprezzante nei nostri confronti. Ma voglio ancora credere che si stia attraversando una fase di passaggio, che si stia partorendo, con l’inevitabile dolore, una nuova società che troverà un suo sufficiente equilibrio, isolando l’estremismo religioso.

Anche a sinistra, inevitabilmente, si è giunti a una grande autocritica che , se non si faranno ulteriori errori, dovrebbe vedere le forze progressiste liberali confrontarsi con i comunisti e i partiti di tradizione marxista e con le formazioni indipendenti e laiche per trovare elementi comuni per formare un fronte unito che faccia opposizione. E c’è il sit-in permanente del Bardo che ricorda ai membri della Costituente e del Governo che la popolazione vigila e difende le conquiste della rivoluzione e che le popolazioni delle zone interne (Gafsa, Sidi Bou Zid ecc.) si aspettano di ricevere attenzione e considerazione per le gravi problematiche che attraversano le loro regioni.

E i problemi che attanagliano la nazione s’intrecciano inevitabilmente con la mia condizione di donna “occidentale” che vive in un paese musulmano, che partecipa, o vorrebbe partecipare, con i propri scarsi mezzi al cambiamento, alla rivoluzione che ancora attende di essere compiuta. Sinceramente, quando venivo in Tunisia per le vacanze, mi sembrava un paese assonnato, immutabile, dominato da una profonda ipocrisia, e non riuscivo a percepirne l’aspetto religioso, anche se ogni tanto in famiglia qualcuno decideva di smettere di bere o di portare il velo. Il bastione contro l’estremismo, Ben Alì, impediva a chiunque di esprimere la propria religiosità compiutamente, con la scusa della lotta al fondamentalismo.

Ora vivo qui, vado a scuola per apprendere almeno l’arabo tunisino e, alla mia età, faccio una terribile fatica… Esco da scuola, a Montfleury, un quartiere di Tunisi che si trova su una collina, scendo verso la Place Bab Jazira per la rue Abdukassem Chebbi: questo momento della giornata è il più prezioso per me, perché, camminando su marciapiedi sconnessi, in mezzo a frotte di rumorosi liceali, sbirciando nei negozietti e facendomi largo a fatica fra i banchi del mercato, mi sento ormai parte di questo popolo.


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