La difficile risoluzione della questione Palestina

par Fabio Della Pergola
venerdì 4 novembre 2011

In un recente articolo su La Stampa, Lucia Annunziata si è chiesta, come cadendo dalle nuvole, “se i palestinesi si armano, tutti gridano che la violenza è un ostacolo alla pace. Se i palestinesi provano a forzare la via diplomatica, come hanno fatto ieri, tutti gridano che queste iniziative unilaterali sono un ostacolo alla pace. Ci piacerebbe allora sapere - in particolare da Israele, Stati Uniti, e Italia - esattamente cosa dovrebbero fare i palestinesi, a parte svanire quietamente tra le nuvole, come in Miracolo a Milano”.

Curiosamente tra opzioni militari e forzature diplomatiche l'unica ipotesi sensata, trattare con la controparte israeliana, non rientra nel novero delle possibilità prese in considerazione.

Che questa sia la via più difficile, ampiamente ostacolata dall'una e dall'altra parte, sia dalla destra attualmente al governo di Israele sia dalle frange radicali dell'opposizione palestinese, è fuori discussione, ma solo un'ideologia stranamente miope (o un po' strabica) può escludere a priori che questa sia, come è, l'unica strada ragionevolmente percorribile perché un conflitto ormai quasi secolare possa arrivare a conclusione.

Né vale l'obiezione -facilmente immaginabile- che gli israeliani si oppongono da sempre e comunque alla trattativa, mentre i palestinesi hanno offerto, da sempre e comunque, opportunità di pacificazione. La storia non è andata esattamente così (basta ricordare i quattro rifiuti storici palestinesi alla ripartizione del territorio prima e dopo la seconda guerra mondiale) e la storia si sa, può essere interpretata, ma non distorta per farsela tornare banalmente a proprio uso e consumo. Perché così non funziona.

"Oggi la questione – dice la giornalista – è che la manovra diplomatica di Abu Mazen è intelligente e altrettanto intelligente dovrebbe essere la risposta israeliana e americana".

Parole ragionevoli che però evitano accuratamente i punti spinosi, perché nemmeno si pongono le domande cruciali: il nuovo stato di Palestina, qualora fosse riconosciuto, che confini avrà? Quale sarà la sua capitale se Gerusalemme è da quarant’anni annessa a Israele? Che ne sarà della questione del diritto al ritorno dei profughi del ’48? Che ruolo avrà, nel nuovo stato, una forza tutt’altro che marginale come Hamas, che di Israele vorrebbe fare solo un brutto ricordo (cioè polpette)? Quale sarà il destino delle colonie ebraiche, piccole e grandi, sorte nella West Bank?

Sono tutte questioni che possono ottenere risposte di parte, chiuse ad ogni concessione all’avversario, e allora non si va in nessuna direzione se non verso nuovi spargimenti di sangue.

Oppure risposte dolorose per entrambi, da cercare caparbiamente e da trovare solo alla fine di un lungo, tormentoso, difficilissimo capitolo di trattative che la comunità internazionale (USA e Occidente in testa, ma anche Iran e Siria, Russia e Cina) dovrebbe favorire anziché usare cinicamente per la sua continua partita a scacchi globale, insidiosa quanto mortale. 

Potranno i palestinesi (leggi Hamas) rinunciare al diritto al ritorno dei profughi? E saranno disposti a riconoscere Israele come stato? E si decideranno a sopportare la definizione di “ebraico” che molti nella comunità internazionale continuano a considerare “razzista” sorvolando sul fatto che molti stati si nominano “arabi” o “islamici” (cioè parimenti definiti in senso etnico o religioso) senza che nessuno abbia niente da ridire? Potranno gli israeliani rinunciare a Gerusalemme Est, sobborgo arabo della loro capitale, perché possa diventare anche la capitale dello stato di Palestina? O accettare di ridisegnare i confini –a partire dalla linea verde di cessate il fuoco del ’48– integrando le colonie più consistenti all’interno dello stato ebraico (ma abbandonando le altre) e accettando di cedere porzioni di territorio israeliano abitate da una maggioranza araba al nuovo stato palestinese? E siamo sicuri che gli arabo-israeliani siano poi così contenti di diventare cittadini palestinesi?

Queste sono le questioni sul tappeto. Si può sposare il punto di vista degli uni oppure degli altri, ma l’unica chance è che qualcuno, come fu fatto a Ginevra nel 2003, si metta a sedere e provi a ragionare di nuovo, con calma.

L’alternativa, banalmente, pare che non ci sia.

Il 31 ottobre la Palestina è entrata a far parte dei membri dell’Unesco. Con molti applausi ed una legittima soddisfazione. Con 107 voti favorevoli su 194.

Fra poco la partita si sposterà all’Assemblea Generale dell’ONU dove servono i due terzi di voti favorevoli, cioè 130. Se si ripetesse il voto dell’Unesco (a parte la questione del veto statunitense al Consiglio di Sicurezza che ne fa comunque una causa simbolica, non concretizzabile), la Palestina non sarebbe accettata nemmeno simbolicamente. Lo smacco per Abu Mazen sarebbe gravissimo e aprirebbe le porte a tutte le forze che alla "forzatura diplomatica" non hanno mai creduto, preferendo la "forzatura militare".

E intanto ai proclami di distruzione che arrivano da Teheran (da anni), adesso si è risposto accendendo i motori dei jet. Obama è inferocito per la situazione in cui è stato messo dalla forzatura diplomatica di Abu Mazen, l'Iran è stato accusato di uno strano complotto su territorio americano, la Siria ribolle, una bizzarra nuova Flotilla è partita alla volta di Gaza (ma nessuno gli ha detto che il valico di Rafah è aperto?), i turchi sono imbestialiti e i curdi (che ci sia lo zampino di qualcuno?) sono di nuovo all'offensiva... 

Insomma, i segnali sembrano infausti. E anche questa non è una novità.


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