La Palestina all’ONU: uno smacco poco comprensibile

par Fabio Della Pergola
domenica 4 gennaio 2015

Usare il termine “rompicapo” per definire la questione israelo-palestinese è il minimo che si possa fare per avvicinarsi alla realtà.

E l’azzardo tentato all’ONU negli ultimi giorni dell’anno dal presidente palestinese Abu Mazen rientra perfettamente nella definizione canonica di “rompicapo”.

La questione è semplice da descrivere: l’ANP ha presentato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una sua bozza di soluzione del conflitto da sottoscrivere entro il 2015, che prevedeva fra le altre cose il ritiro di Israele sui “confini” del ’67 (cioè sulla linea dell’armistizio del ’48) entro il 2017.

La bozza, rimaneggiata più volte nel corso degli ultimi mesi è stata alla fine presentata all’estrema istanza dell’ONU dove aveva bisogno di nove voti favorevoli sui 15 presenti, tra membri permanenti e membri a rotazione del Consiglio stesso, per poter essere accettata come proposta di risoluzione da far votare all’Assemblea Generale.

La possibilità che venisse approvata era nulla, e tutti lo sapevano, per l’annunciato veto USA, ma la carta che il governo palestinese voleva giocare era esattamente quella di avere dalla sua una maggioranza politica estremamente significativa, costringendo gli Stati Uniti a uscire allo scoperto con il suo niet.

O almeno così sembrava.

Sta di fatto che mentre USA e Australia hanno votato prevedibilmente contro, mentre 8 paesi hanno votato a favore (Giordania, Argentina, Chad, Cile, Cina, Francia, Lussemburgo e Russia), la questione si è giocata sulle astensioni di Gran Bretagna, Lituania, Nigeria, Corea e Ruanda. Bastava che uno di questi paesi fosse passato nel campo dei favorevoli perché la situazione costringesse il rappresentante americano a uscire allo scoperto.

Ma questo non è successo e oggi molti si chiedono che cosa ha spinto Abu Mazen alla sua mossa azzardata. Contare, in pratica, solo sui due paesi africani ben sapendo che l’uno è alle prese da anni con l’estremismo islamista dei Boko Aram e l’altro con la spina nel fianco della sua terribile povertà, è sembrato incomprensibile.

Solo il Manifesto parla di “coltellata alle spalle” della Palestina, facendo finta di cadere dalle nuvole e di non sapere che il problema vero è stato l’azzardo di Abu Mazen, non l’ipotetico “tradimento” di qualcuno. Aspettare solo qualche giorno avrebbe voluto dire avere a proprio favore - per via della prevista rotazione dei membri non permanenti - un ventaglio più ampio di voti a favore.

Il primo gennaio è scaduto infatti il mandato per Ruanda, Argentina, Lussemburgo, Corea del Sud e Australia, cioè di uno dei due paesi contrari e di due degli astenuti al voto sulla bozza palestinese. E, dal primo gennaio, si sono seduti al tavolo del Consiglio Angola, Malesia, Venezuela, Nuova Zelanda e Spagna. Le prospettive sarebbero state decisamente diverse e i nove voti necessari sarebbero stati quasi certamente raggiunti.

La mossa deve essere sembrata strana anche ad occhi palestinesi se il Presidente era stato avvertito dai suoi stessi colleghi di governo: “Hamas chiede il ritiro dell’iniziativa: la proposta è catastrofica”, scriveva ancora Michele Giorgio su il Manifesto del 30 dicembre, poco prima che la bozza fosse presentata.

Perché Abu Mazen non ha aspettato solo qualche giorno per avere condizioni più favorevoli alla sua iniziativa? Perché ha - volutamente, dobbiamo pensare - cercato uno smacco diplomatico di questa portata? 

Le domande non hanno per ora risposte certe; si possono solo azzardare delle ipotesi.

La prima potrebbe essere svelata dalla mossa successiva: giustificare con la sconfitta diplomatica la volontà di accedere, firmando una ventina di protocolli internazionali, alla Corte Penale Internazionale. L’intento, per ora solo minacciato, è quello di denunciare Israele per crimini di guerra. Mossa azzardata perché, immediatamente, verrebbe coinvolta anche Hamas - appena derubricata, per poco comprensibili motivi “tecnici”, dalla lista delle formazioni terroristiche dell’Unione Europea - per gli stessi crimini.

E sarebbe facile per Israele ottenerne la condanna internazionale sia perché Hamas ha colpito (o tentato di colpire) più i civili che i militari (ed ha sempre rivendicato pubblicamente le proprie azioni) sia perché è debole anche rispetto all’accusa di essersi fatta scudo di civili durante il conflitto di Gaza (ci sono numerose testimonianze che la metterebbero in difficoltà).

A meno che Abu Mazen non voglia, perfidamente, tagliare le gambe ai “colleghi” di Hamas, quanto indebolire Israele, anche questa mossa appare azzardata.

In alternativa, il flop al Consiglio di Sicurezza può avere almeno un’altra spiegazione: dimostrare l’impossibilità della partita diplomatica internazionale, indipendente dalla trattativa, cercando volutamente uno smacco, per poter imporre la trattativa stessa - unica via sensata di soluzione del conflitto - ai suoi riottosi “colleghi” di governo.

In attesa che le elezioni anticipate in Israele - la coincidenza temporale della crisi di governo a Gerusalemme con la proposta palestinese all’ONU appare tutt'altro che casuale - partoriscano un governo nuovo, solido e rafforzato dal voto popolare.

Ma il governo israeliano potrebbe andare ancora più a destra: le intenzioni di Netanyahu sembrano essere state queste quando ha di fatto silurato i suoi ministri centristi, rei di essere contrari alla contestata proposta di legge che voleva far passare una maggiore “ebraicità normativa” nella legge fondamentale dello stato.

Quindi, apparentemente, ancora meno prospettive di trattativa. Anche se la storia ci insegna che il trattato di pace con l’Egitto fu sottoscritto da Menachem Begin, il premier appartenente all’ala più di destra del parlamento israeliano.

Insomma, tacitate le opposizioni - sia da una parte che dall’altra - la trattativa potrebbe riprendere. Ma è solo un’ipotesi (azzardata) fra le tante.

In caso contrario il “rompicapo” non sarebbe tale.

 

Foto: Montecruz Foto/Flickr


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