La Libia: anche una lezione sui danni del "leaderismo"

par Daniel di Schuler
giovedì 24 febbraio 2011

Ho sentito usare per la prima volta il neologismo "leaderismo" un paio d’anni or sono, da una persona che pure vedevo per la prima volta, Maurizio Lupi, ospite di non ricordo quale bettola televisiva.

Pronunciava quella parola con soddisfazione, quell'uomo che parlava troppo velocemente per pensare a quel che diceva, riempiendosene la bocca, come fanno tanti nostri connazionali, tra quelli meno dotati intellettualmente, con le ultime - e per solito effimere - innovazioni lessicali, specie se d'origine anglosassone.

Che vi fosse di cui esser contenti in quel termine, e ancor di più nel concetto che esprimeva, non lo compresi allora e mi pare ancor meno comprensibile oggi.

La riduzione della politica a confronto tra personalità, il ritorno all'età del ferro con lo scontro tra capibanda per il controllo della tribù, è un sintomo della barbarie dei nostri tempi; una conseguenza della trasformazione imposta alla società dalla televisione che, se per McLuhan ha fatto del mondo in un villaggio, ha anche fatto scendere il livello del nostro dibattito politico a quello di una discussione tra comari sull'aia d'un cascinale o di una rissa tra zotici avvinazzati.

Il dover assistere a dibattiti che di politico hanno ormai ben poco, ridotti a scontri tra sostenitori e oppositori del capo, è solo uno dei prezzi che il leaderismo impone al paese che ne cada vittima.

E’ quando i rapporti internazionli si trasformano in relazioni personali tra leader che tutto si complica; che la politica estera di un paese può trovarsi bloccata su posizioni indifendibili e contrarie, già nel medio termine, ai propri interessi.

Non solo l’Italia avrebbe dovuto immediatamente condannare l’uso della forza da parte di Gheddafi perché così le imponevano i più elementari principi etici; avrebbe dovuto farlo anche per chiarire la sua volontà di cooperare con il popolo libico indipendentemente da chi lo rappresentasse. Sono i libici, questo era l’unico messaggio che avesse senso mandare, che vogliamo per amici e non questo o quel governante.

E’ stata proprio l’amicizia personale tra il nostro Uomo del Destino 2.0 ed il dittatore libico, rivendicata ancora pochi giorni fa, che ha impedito alla nostra diplomazia, prima di qualunque considerazione di natura economica - ne hanno di simili, anche se meno importanti delle nostre, anche gli altri paesi europei - di fare l’unica cosa che avesse senso.

Non sono noti i vantaggi che avrebbero dato all’Italia le genuflessioni di Berlusconi nei confronti dell’ex colonnello libico; quel che è certo è che paghiamo il gas che importiamo dalla Libia senza particolari sconti e le poche migliaia d’irregolari trattenuti in quel paese, spesso violaziondo i più fondamentali diritti umani, oltre ad essere ben poca cosa rispetto alla valanga d’immigrati che attraversa le notre frontiere terrestri, rappresentano una sconfitta per l’immagine internazionale dell’Italia.

Una sconfitta che il comportamento delle nostra diplomazia in questi giorni ha trasformato in una vera e propria disfatta; siamo rimasti gli ultimi amici di Gheddafi e, proprio per questo rischiamo di contare molto di meno, per decenni, nel nuovo Nordafrica e, soprattutto, nella nuova Libia.

Quando Roosevelt morì, Hitler e Mussolini accolsero la notizia con gioia pensando che la sua scomparsa preludesse ad un radicale mutamento della posizione statunitense; non avevano capito, soprattutto il primo, che in una democrazia non c’è un fuherer; che è il Presidente a rappresentare il Paese e non il Paese che s’incarna nel Capo.

Molti, ancora oggi, in Italia, non sembrano averlo capito: la democrazia non ha nessuna necessità di leader; bastano dei politici capaci di far bene il proprio mestiere.


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