L’uomo in piedi: il timido eroe turco

par Fabio Della Pergola
venerdì 21 giugno 2013

La Turchia in questi ultimi anni ha proposto al mondo molte novità.

Ha proposto prima di tutto un superamento dell’asfittico regime militare che ogni poco interveniva nella vita civile spezzando le reni ora ai movimenti della sinistra marxista, ora agli indipendentisti curdi, ora ai revanscisti religiosi dell’ortodossia islamica. 

Quindi ha proposto governi laici capaci di dialogare con l’Europa e di avanzare un credibile, anche se non immediato, ingresso del paese nel club dei paesi europei democratici. Poi ha proposto un governo islamico moderato che agli occhi di tutti gli analisti sembrava incarnare l‘originalissima possibilità storica di conciliare Islam e democrazia, diritti civili e sharia. Poi ha proposto un leader di statura internazionale che ha improvvisamente posto all’attenzione del mondo quella che è sembrata la nuova centralità turca nel Vicino Oriente, in una rivisitazione moderna del sultanato ottomano.

Con relativo, robusto schiaffo agli ex alleati israeliani, per rinverdire un’ottica panislamica che ponga, come al solito, il problema palestinese al centro della sua azione politica; con pesanti ingerenze nella crisi siriana, con un processo di mediazione, da un supposto gradino più alto, fra esigenze del mondo sunnita e quelle sciite, poi ampiamente rientrate.

Infine ha mostrato alla comunità internazionale e soprattutto alla società turca il polso del premier che non ha alcuna intenzione di cercare mediazione e compromessi con la minoranza civile, sociale, culturale e politica che mal digerisce i successivi passi di islamizzazione forzata.

E qui viene fuori prima la resistenza, quella dei giovani che hanno occupato il Gezi Park per impedirne la cementificazione, con tende e musica, banchetti e danze, canti e grandi dormite stesi per terra. Immediatamente dopo, una reazione dura, intransigente del governo e una repressione poliziesca che molti, da più parti, hanno definito decisamente eccessiva e sproporzionata. Ma si sa che Gezi Park era solo la scusa per un malcontento che ribolliva, per uno scontro che bastava aspettare.

Infine, dopo lo sgombero della piazza e l’imposizione dell’ordine pubblico manu militari, la Turchia ha proposto al mondo globale i molti che avevano saputo resistere senza reagire alla violenza. Le "donne in rosso" prima di tutto.

E poi, stranamente uscito fuori da chissà dove un piccolo, grande uomo.

Un piccolo grande uomo che ha avuto una reazione individuale, profondamente personale, quasi intima, ma potenzialmente devastante per l’ordine costituito.

Lui, un giovane coreografo di nome Erdem Gundüz, quindi un artista abituato ad usare il corpo per manifestare le proprie emozioni e le proprie idee, si è fermato nel più perfetto silenzio con un atteggiamento assolutamente determinato, ma con le mani in tasca: nessun pugno mostrato al nemico, nessun oggetto da scagliare, nessun gesto di ostilità.

Un uomo solo, silenzioso, fermo, con lo sguardo fisso davanti a sé che “rifiuta”; semplicemente rifiuta. Rifiuta la violenza cruda della polizia, naturalmente; la forza dei manganelli, degli idranti, dei gas urticanti, dei colpi di pistola. Delle teste rotte e del sangue. Ma rifiuta anche la violenza della protesta che occupa, che si oppone, che alza le barricate, che risponde al fuoco con il fuoco, all’acqua con le pietre. La violenza contro la grande forza dello Stato attuata dalle piccole forze popolari, che non hanno mai alcuna possibilità di vittoria con questi mezzi. Hanno solo la possibilità di un suicidio. Politico, se non anche fisico, a volte. Come l'azione suicidale di Genova 2001.

Lui invece sta fermo, solo fermo. Per ore, con le mani in tasca e un'assoluta determinazione. È un “no” espresso con il corpo, un "no" che nobilita. Un “no” che costituisce il massimo movimento umano, pur nella sua più assoluta immobilità. Un’incongruenza apparente che è in realtà la più profonda verità. Un movimento che si coglie benissimo, che chiunque coglie e sa interpretare istantaneamente.

Non muoversi, non minacciare, non distruggere, non affrontare, non usare il corpo come fu fatto invece in quel falso movimento che è stato la caratteristica più vera del ’68 e dei suoi più tardi epigoni; ma usarlo al contrario per essere così forti da diventare inamovibili per il potere. Per qualsiasi governo che voglia almeno salvare l’apparenza della democrazia. A meno che non ti sparino, non possono farti niente.

Erdem Gundüz ha aperto questa strada facendo il gesto più semplice per un essere umano: fermarsi. Senza avere l’alone mistico di un Gandhi, senza essere costretto alla grandiosa resistenza nelle patrie galere di un Mandela, ma fermandosi con le mani in tasca. Per dire “io no”. Espressione semplicemente geniale della prima capacità umana, quella di voltare la testa dall’altra parte, per rifiutare: no.

"Esprimo un dolore", ha spiegato Gundüz. È espressione di un dolore per le ferite subìte dai giovani contestatori e per la violenza gratuita di un potere ottuso. Espressione di dolore che diventa immediatamente azione politica di una forza dirompente.

E noi siamo rimasti - come lui - paralizzati; dalla semplicità e dall’impatto estremo del suo gesto. Ammaliati dalla forza possente, gigantesca della sua immagine che non a caso in un attimo è diventata l’icona della resistenza turca in ogni giornale, in ogni televisione. In tutto il mondo.

Affascinati siamo rimasti a guardarlo quasi sorpresi dalla facilità con cui si può bloccare l’operazione repressiva dello Stato che non può scatenare la sua ordinaria violenza contro un uomo inerme, che non vìola alcuna legge, che non fa male a nessuno, che non rompe, non agisce, non devasta, non brucia, non tira sassi; che non sparge sangue, né il suo né quello di altri. Uno che, semplicemente, sta lì e dice “no”, io "no".

Nessuna repressione è possibile, se non attirandosi l’ira e lo sdegno di tutta l’opinione pubblica nazionale e internazionale; è la vittoria dei piccoli uomini e donne che sanno fare resistenza, quelli che hanno abbastanza fantasia da capire che Erdem Gundüz ha sconvolto l’intera prassi rivoluzionaria degli ultimi due secoli. Fermarsi esprimendo il proprio inamovibile no.

Geniale.


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