L’università italiana tra anomalie e disinformazione

par Luca Tedesco
lunedì 17 agosto 2009

Nell’ultimo quindicennio l’editoria italiana ha inondato il mercato con un profluvio di saggi, di valore diseguale, sull’università italiana. Nel 1993, per l’esattezza, veniva dato alle stampe L’Università dei tre tradimenti, pamphlet di successo del linguista Raffaele Simone che impietosamente ma senza acrimonia squadernava i guasti delle università italiane; dalla loro (dis)organizzazione e struttura istituzionale irrazionale e invertebrata, caratterizzata dalla assenza di un vero centro di comando e dalla proliferazione tumorale di cellule di potere e sottopotere, alle diverse forme del malcostume imperante nell’accademia, diffuso sia tra i professori che tra gli studenti, all’assenza di indicatori della qualità del servizio prestato, al tradimento delle due missioni principali, l’insegnamento e la ricerca. Nella premessa Simone notava (e lamentava) l’indifferenza che il mondo della cultura aveva fino a quel momento riservato all’università.

Da allora, come dire, molta acqua è passata sotto i ponti. Non tanto per quanto riguarda le ragioni del j’accuse del professore di Linguistica di Roma Tre, alcune delle quali hanno egregiamente e tristemente resistito all’usura del tempo ma perché la solitudine verginale dell’università italiana è stata ripetutamente violata se non dalla curiosità morbosa della cultura ’alta’, certamente di quella della galassia dei mass media.

Tale curiosità si è tradotta però in una letteratura scandalistica e aneddotica che si è limitata a registrare singoli seppur frequenti episodi di malcostume, si è accontentata di elencare, affastellandoli, nequizie e scabrosità pur innegabili del ceto accademico e di compiacere e vellicare gli istinti più bassi del lettore, quasi invitandolo ad una sorta di jacquerie contro la fortezza dell’accademia, abitata, manco a dirlo, solo, per l’appunto, da baroni.

Qualificare semplicemente tali atteggiamenti come rozzi e qualunquistici sarebbe peraltro indice di scarso coraggio morale. Noi docenti universitari ci dovremo pur chiedere o no perché assieme alla ’casta’ dei politici, dei notai, dei giornalisti, dei magistrati, dei farmacisti e dei tassisti (e chi più ne ha ne metta) siamo finiti anche noi sul banco degli imputati? Solo per l’atavica tendenza degli italici a disistimarsi e al cupio dissolvi?

Ma anche solo il tentare di abbozzare una timida risposta a questi interrogativi esula dal compito di queste note. Qui, infatti, vogliamo segnalare come, nel gorgo voluttuoso di inchieste illuminanti malefatte vere e presunte dell’accademia, inchieste che recentemente hanno compiuto un ’salto di qualità’ affiancando, accanto alla cronaca, l’uso, non sempre rigoroso, delle statistiche (fuorviando, ahimé, anche il sottoscritto), è apparso recentemente un volumetto preziosissimo, Malata e denigrata. L’Università italiana a confronto con l’Europa (Roma, 2009), a cura di Marino Regini, pro-rettore dell’Università statale di Milano e docente di Sociologia economica. Non sono neanche 120 pagine ma è, forse, quanto di meglio sia stato scritto sull’università italiana negli ultimi anni. Dalla lettura dei diversi saggi che lo compongono il lettore apprende, infatti, che se alcune disfunzioni quali il sistema di governance degli atenei e di reclutamento, la struttura della docenza e il finanziamento scarsamente selettivo dell’università e della ricerca sono tipiche dell’università italiana o comunque da noi molto più marcate che all’estero, altre, come l’esplosione negli ultimi anni del numero dei corsi di studio, ci accomunano ai maggiori Paesi europei.

L’Italia spicca infine poco onorevolmente nel panorama europeo per carenza di residenze universitarie, borse di studio, prestiti agevolati e servizi vari agli studenti come trasporti e pasti.

Ma se l’inadeguatezza e la scarsa competitività del proprio sistema universitario nel confronto internazionale spinge negli altri Paesi l’opinione pubblica, come osserva Regini nelle pagine introduttive, a pretendere dai poteri pubblici un sostegno più deciso a quel sistema, in Italia, forse, lo scarso senso dello Stato e uno più spiccato individualismo (lo notiamo per amore di scienza senza voler esprimere nel merito alcun giudizio di valore) inducono il cittadino al disincanto e all’invettiva contro l’ultima, prima di mettere alla berlina la prossima, delle caste.


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