L’unico inviato di guerra possibile è quello embedded

par chenying
sabato 24 aprile 2010

Perugia, Festival Internazionale del Giornalismo. Alla domanda “sarebbe possibile raccontare oggi un’ipotetica presa di Kabul da parte degli insorti come fu raccontata la caduta di Saigon?”, i tre rispondono all’unisono: no, troppo pericoloso.

Sono Gianluca Ales, di Sky Tg24, Oliviero Bergamini, Tg3, e il generale Massimo Fogari, capo Ufficio Pubblica Informazione dello Stato Maggiore della Difesa.

Hanno partecipato e partecipano agli ultimi conflitti asimmetrici e non, i primi due come inviati, il terzo come militare, responsabile della comunicazione dell’esercito e dei rapporti con la stampa.

Il dibattito, sul giornalismo di guerra, spiaga trucchi e retroscena di una professione che risale a inizio Ottocento.

Paradossalmente – spiega il generale – solo se quegli insorti fossero tutti talebani, motivati e disciplinati religiosamente, si potrebbe raccontare l’eventuale caduta di Kabul “dalla loro parte”. “Hanno sempre dimostrato di avere un grande istinto per la comunicazione e potrebbero accettare la presenza di un giornalista”. Gli altri no: per capi tribù, qaedisti, narcotrafficanti, semplici insorti, il giornalista è al massimo una gallina dalle uova d’oro. Qualcuno da rapire per avere un riscatto.

Altrimenti è un bersaglio.

E il talebani strettamente intesi, secondo le ultime informazioni, sarebbero solo il 10 per cento circa della costellazione degli “insurgents”.

La conseguenza di questa riflessione è inevitabile: l’unico inviato di guerra possibile è quello embedded. Ma questo comporta inevitabilmente altri problemi: “Io racconto la guerra dal punto di vista dei soldati, di questo devo essere consapevole”, spiega Ales. Non racconto l’altra parte.

Tutto si gioca in una triangolazione tra giornalista, militari e potere politico – spiega Bergamini – e gli interessi di questi tre soggetti molto spesso non coincidono: “In Iraq abbiamo assistito a un progressivo inasprimento del controllo sui giornalisti su indicazione di governi che non volevano far apparire la guerra per come è”.

Si parla di governi italiani. In effetti – concordano i due giornalisi – da noi non c’è la stessa dimestichezza con la guerra che c’è nei Paesi anglosassoni. Un morto “dei nostri” è un dramma molto maggiore che da loro. Per cui bisogna nascondere.

Il generale Fogari rivela che una nuova direttiva del luglio 2009 ha codificato il rapporto tra esercito e giornalisti embedded. Ora l’inviato viene ospitato dai militari e aggregato a un’unità operativa dopo avere firmato una liberatoria sulla propria incolumità e un impegno a non mettere a repentaglio la vita dei soldati.

Prima – aggiunge Bergamini – era tutto indeterminato e quindi, per evitare guai, eravamo più controllati. Giravamo costantemente con ufficiali addetti che ci facevano un programma. Ora condividiamo in tutto e per tutto la vita delle unità operative assumendocene la responsabilità.

Secondo l’Inviato del Tg3 l’embedding è una contromossa made in Usa dopo il Vietnam. Dopo un inizio edulcorato, di quel conflitto i giornalisti raccontarono il lato oscuro. Le immagini di morti americani e delle sofferenze della popolazione civile fecero il giro del mondo e fomentarono la ribellione contro la guerra. Allora è meglio offrire ai giornalisti un “servizio” ma tenerlo sotto controllo.

Ma, embedding a parte, quali sono i segreti della professione? Secondo Ales è necessario soprattutto avere un buon traduttore e un ottimo stringer, il factotum che crea contatti e organizza gli spostamenti del giornalista sul teatro di guerra.

“E quindi – aggiunge – ci vogliono soprattutto istinto ed esperienza per sceglierli bene“. Il problema della mediazione linguistica e culturale è fondamentale: “Tendiamo sempre a occidentalizzare e quello che a noi appare folle, spesso per ‘loro’ è la normalità. E poi ci sono traduttori che spesso traducono quello che vogliono loro.”

Esiste anche un problema di sicurezza: “Leggendo il racconto di Mastrogiacomo – il giornalista di Repubblica rapito e poi rilasciato in Afghanistan – fa impressione vedere come tutto fosse predisposto al meglio, con contatti fidati fino a un giorno prima. E poi si è visto come è andata a finire.”

L’embedding ha dei limiti – conclude Bergamini – ma non bisogna neanche pensare che raccontare “l’altro” sia la verità. In guerra è difficile trovarla, la verità.

Un aneddoto.

“Un giornalista francese va un giorno nell’ospedale di Umberto Cairo, l’ortopedico italiano che opera a Kabul. Trova un afghano con la gamba amputata, gli chiede come è successo e quello comincia a raccontargli una storia drammatica: la guerra, la casa distrutta, è stato picchiato dai talebani, è saltato su una bomba, eccetera. Il giornalista va via con il suo pezzo e arriva Cairo: ‘Cosa gli hai raccontato? Hai perso la gamba in un incidente in campagna‘. ‘Sì è vero – risponde quello – ma hai visto come è andato via contento?’


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