L’ultimo capitolo della spending review

par francesco formisano
giovedì 9 agosto 2012

Il provvedimento sulla spending review è diventato legge. Tra i 25 miliardi di risparmi in 3 anni c'è poca traccia dei tagli ai privilegi e molto spazio riservato alla spesa sociale. Con un occhio di riguardo all'Università, dove il merito finisce ancora una volta in coda.

Dopo il via libera del Senato e l’ok arrivato martedì dalla Camera, è diventato legge il provvedimento che taglia la spesa per 4,5 miliardi quest’anno, 10,5 il prossimo e 11 nel 2014, per un totale di 26 miliardi di risparmi. Ed è grazie a questa cifra che secondo il Governo si riuscirà ad evitare l’aumento dell’Iva fino al giugno 2013; ed è quiche nasce la prima preoccupazione, perché l’aumento di due punti percentuali dell’imposta sui consumi (IVA) è stato solo rimandato (quel “fino” nel testo è inequivocabile), e molto verosimilmente tornerà al centro dell’agenda politica tra un 700 giorni circa. Le resistenze più ardue alla spending review vengono dalle province: 70 giorni di tempo a loro disposizione per presentare proposta di riordino, ed è qui che s’accenda la fantasia di diversi amministratori locali. Ipotesi di grandi agglomerati, dove potrebbero rientrare sotto una sola provincia ben 4-5 capoluoghi. I criteri, al momento parlano chiaro: 350mila abitanti e 25mila km quadrati per resistere.

L’ultimo atto della spending review inoltre, mette in esubero circa 24mila dipendenti pubblici, elimina circa 7mila posti letto, tagliando i trasferimenti statali a Regioni ed enti locali per 13 miliardi fino al 2014. E’ definitivo il tetto di 300 mila euro agli stipendi di manager pubblici, o di aziende a partecipazione statale, ma ovviamente, vale per i futuri contratti: salvi dunque, i compensi dei nuovi dirigenti Rai. Possibili nuovi tasse - addizionale Irpef - per le Regioni in rosso con la sanità: Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Abruzzo, Molise, Lazio e Piemonte. Qualche taglio di troppo evitato alla casta, restano però i dimezzamenti delle auto blu, ed un 10% di tagli alla spesa militare che fa ben sperare per il futuro. Certo, tutto il provvedimento non sposa proprio i criteri di meritocrazia ed equità, perché, come detto si poteva fare molto di più per aggredire la spesa improduttiva e non concentrarsi, semplicisticamente, verso i dipendenti pubblici (magari alle consulenze esterne, spesso stracolme di clientelismo), con i piccoli enti di ricerca e verso tagli lineari agli enti locali che non tengono conto delle virtù mostrate nei rispettivi cammini.

L’ultima considerazione la voglio dedicare all’Università: aumento solo relativo all’inflazione per i redditi (ISEE) inferiori a 40mila euro, del 25% per redditi fino a 90mila e del 100% oltre i 150mila euro. Si vuole premiare il merito, ed è pertanto ragionevole premiare coloro che sono in regola, penalizzando chi ci mette meno impegno. Giusto, per carità. Ma a questa logica, per essere davvero efficiente, dovrebbe accompagnarsi un aumento dei sussidi per le borse di studio: sempre più in calo i fondi e, al tempo stesso, sempre di più gli studenti che lavorano per mantenersi gli studi; ed è inevitabile che dedicando tempo al lavoro si finisce col perdere spesso l’appuntamento con esami, rimanendo indietro rispetto a chi può dedicarsi “anime&corpo” allo studio. Anche questo costituisce una differenziazione poco meritocratica che mal si sposa con i criteri di solidarietà ed equità sociale. Anche questo, potrebbe essere visto come una violazione dell’articolo 3 della Costituzione, in quanto si finisce col limitare di fatto la piena eguaglianza dei cittadini.


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