Ecco come la strategia monetaria della Fed mangerĂ  i risparmi degli americani

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giovedì 23 febbraio 2012

Le speranze di ripresa dell'economia americana (e, dunque, dell'occupazione) sono legate all'eventualità che gli Stati Uniti riescano ad incrementare l'attuale livello di esportazioni. Per aumentare le quote del made in USA nel mondo, la Federal Reserve intende svalutare il dollaro del 33% nei prossimi 20 anni attraverso un 2% d'inflazione annuo.

Perché? La Fed (a differenza della BCE in Europa) è deputata non solo al controllo della stabilità monetaria, ma anche alle politiche sull'occupazione. Manipolare i tassi di interesse renderà le merci americane più competitive, rilanciando la produzione e di conseguenza la creazione di nuovi posti di lavoro, a fronte di un aumento del livello dei prezzi appena percettibile.

Forbes spiega le ragioni per cui questo piano si rivelerà fallimentare. In teoria, tale aumento non comporta grossi sconvolgimenti nella vita dei comuni cittadini. Sotto il gold standard, un tale aumento era raro, ma non sconosciuto. La differenza è che quando il dollaro era agganciato all'oro, nel tempo a tale inflazione modesta faceva seguito una riduzione dei prezzi. Di conseguenza, per lunghi periodi di tempo, questi ultimi restavano sostanzialmente invariati.

 

Oggi non è più così. La politica della Fed del denaro alle banche a costo zero sta accentuando le conseguenze negative di questa costante erosione del potere d'acquisto del dollaro, imponendo un ritorno negativo sulle obbligazioni e sui depositi bancari a breve termine. A conti fatti, sempre secondo la Fed, tale obiettivo ruberà - non c'è termine più adatto per dirlo - quasi il 10% dei risparmi degli americani per i prossimi 4 anni. Inoltre, l'idea che svalutazione monetaria e disoccupazione siano legate da una relazione inversa è un'ipotesi di scuola, visto che risultati degli ultimi 40 anni dicono il contrario: l'esperienza più recente - con il Quantitative Easing - smentisce il concetto che la manipolazione del dollaro possa stimolare l'economia.

Già nel 2010 il presidente Obama aveva annunciato l'intenzione di raddoppiare il livello di esportazioni (da uno e due trilioni di dollari) nei successivi cinque anni, secondo un ambizioso programma di politica commerciale che avrebbe dovuto creare due milioni di posti di lavoro.

L'obiettivo era chiaramente irrealistico, non soltanto per la serie di insperabili congiunzioni astrali (lotta all'ultimo sangue con l'ala liberal del suo partito, trattative con la Cina per indurla ad apprezzare il renminbi del 40%, incentivi fiscali per le aziende americane che fanno affari all'estero e prezzo del petrolio in discesa) necessarie per realizzarlo.

Il vero problema è che se l'economia globale non si rialza, nessuno potrà comprare la valanga di prodotti con cui gli USA vogliono inondare il mondo.

L'Europa è in panne: i Paesi che adottano l'euro sono ancora avvolti nella spirale della crisi, e anche quelli rimasti fuori dalla moneta unica (come l'Ungheria e il Regno Unito) non se la passano meglio. La Cina esporta a ritmi ancora vertiginosi, ma il mercato interno non decolla e gli spettri dell'inflazione e del debito pubblico locale gettano un'ombra sul mantenimento degli attuali livelli di crescita. L'America Latina ha ridotto le importazioni tramite politiche protezionistiche molto restrittive. L'Africa, non è una novità, è ancora troppo povera. La stessa America, anziché esportare, sta importando sempre più beni per assorbire il grosso della produzione cinese ed europea.

Negli ultimi cento anni il dollaro ha visto il proprio potere d'acquisto assottigliarsi sempre di più, al punto che adesso ammonta al 5% di quello detenuto all'inizio del secolo scorso. Ma stavolta le conseguenze potrebbero essere pesanti per le tasche di quel 99% che all'American dream sembra non crederci più.

Benché Washington sia contraria a qualsiasi riduzione del ruolo del dollaro come riserva valutaria mondiale, si sa che Francia, Germania, Russia e Cina stanno attivamente tentando di rimpiazzare il biglietto verde con un paniere di monete (conosciuto come SDRs: Special Drawing Rights), mettendo fine al suo exorbitant privilege burden.

L'iniziativa della Fed, pur ispirata all'idea di rilanciare il made in USA, potrebbe accelerare questo processo di abdicazione. A rimetterci saranno gli americani, che vedranno erodere buona parte dei propri risparmi. A ciò si aggiunga la singolare iniziativa delle banche too big to fail – con Goldman Sachs e JP Morgan in testa – che hanno proposto al Dipartimento del Tesoro l'emissione di obbligazioni a rendimento negativo. Come a dire: i comuni risparmiatori dovranno pagare per continuare a permettersi il lusso di investire i propri soldi in obbligazioni.


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