L’obbedienza non è più una virtù: Antigone

par Maria Rosa Panté
lunedì 6 dicembre 2010

 

Si deve ancora scrivere di Antigone almeno per tre buoni motivi:

  1. Per i giovani che oggi contestano le scelte d'un potere sempre più lontano non solo da loro, ma dalla coscienza di ognuno.

  2. Per parlare del dovere di disobbedire e di un grande maestro, in quest'epoca di cupo clientelismo e di tagli alla scuola soprattutto per i più poveri.

  3. Per parlare di uno spettacolo teatrale proprio su Antigone (sia pure ambientato nella Sarajevo degli anni '90). Testo messo in scena da una compagnia di attori molto giovani e molto bravi, uno spettacolo che consiglio di andare a vedere... Purché che la compagnia trovi Comuni che usino i fondi anche per il teatro e la cultura (anzi chi legge se può li contatti vale la pena ecco il loro indirizzo lattoria@gmail.com e sono anche su Facebook)

E ora il mito...

La storia (per chi non la ricordasse).

Siamo a Tebe, due fratelli si sono uccisi in una guerra fratricida: uno, avendo combattuto in difesa della città, ha diritto alla sepoltura, l'altro invece è condannato a rimanere insepolto, in balìa degli animali selvatici e soprattutto è condannato a non trovare quiete neppure dopo la morte.

I due fratelli sono Eteocle e Polinice, vengono da una stirpe maledetta, quella di Edipo; hanno anche due sorelle Ismene e Antigone. Proprio Antigone seguì il vecchio padre Edipo fino alla sua morte. Ora è tornata in patria, a Tebe, ha assistito sia alla terribile lotta tra i fratelli sia all'altrettanto orribile ordine dello zio Creonte, che ora regge la città.

Creonte ha ordinato di non seppellire i traditori di Tebe, tra cui uno dei fratelli di Antigone. La giovane non può accettare una simile violazione del diritto naturale di essere seppelliti e di dare sepoltura, così di notte per ben due volte ha seppellito il fratello. Alla fine è stata scoperta e condotta di fronte allo zio, al tiranno. Antigone non solo non si piega al volere dello zio che invoca la legge, ma proclama ad alta voce il diritto alla disubbidienza quando la legge vada contro i diritti inviolabili dell'essere vivente.

Sarà così condannata ad essere sepolta viva, verrà condotta presso un antro oscuro e qui rinchiusa, nonostante le proteste anche del figlio di Creonte, che è fidanzato della fanciulla.

Creonte è irremovibile, quando però scopre tutte le disgrazie che questo assassinio porta con sé, tra cui il suicidio del figlio, decide di far liberare Antigone, ma è troppo tardi, la fanciulla si è impiccata.

Dove sta la disubbidienza?

Antigone, scoperta mentre disubbidisce agli ordini, viene condotta davanti a Creonte, il quale le chiede come ha potuto calpestare le leggi che lui aveva promulgato.

Antigone risponde così (vv. 450-470)

Proclamato per me non avea Giove

questo bando: la somma dea che domina

con gli dei d'oltre tomba, la Giustizia,

tali leggi giammai bandì per gli uomini;

né i tuoi bandi credei tanto potessero,

che le leggi non scritte ed incrollabili

degli dei sovvertire uomo mortale

potesse mai: ché non son d'ieri e d'ora

queste leggi, ma vivon sempiterne,

e quando sorser non conosce alcuno.

Queste leggi giammai per il protervo

arbitrio d'alcun uomo violando,

non volevo affrontar l'ira divina.

M'aspettava la morte? Lo sapevo,

se pur tu non l'avessi proclamato.

Antigone, dunque, affronta la morte, disubbidisce a leggi che non ritiene giuste in nome di altre leggi, che Sofocle identifica con quelle divine non scritte, ma che si possono anche collegare alle leggi della coscienza.

Alla fine di questo discorso a Creonte che proclama il suo odio per i nemici, Antigone risponde: "Non d'odi, no, d'amor compagna nacqui". Perché queste leggi non scritte, le leggi della coscienza sono proprio dettate dall'amore.

L'obbedienza non è più una virtù.

Un maestro, nel vero senso della parola, che insegnò a seguire la voce della coscienza e quindi anche a disubbidire quando la legge vada contro questa voce, fu don Lorenzo Milani.

La sua scuola, la scuola di Barbiana, per i più poveri, non seguiva certo i metodi tradizionali, ma puntava sulla conoscenza attraverso le proprie esperienze e puntava soprattutto sullo sviluppo della capacità di esprimersi e sullo sviluppo di una coscienza critica.

La capacità di pensare con la propria testa e di seguire la propria coscienza può talvolta contrastare con certe regole, certe norme che la società o addirittura lo stato può imporre. Don Milani obbedì alla Chiesa quando gli impose di lasciare a mezzo il suo lavoro, ma non ritenne giusto obbedire a una legge che ti dice "devi uccidere".

Così sostenne strenuamente l'obiezione di coscienza e fu anche citato in giudizio. Proprio in questa occasione scrisse una famosa lettera ai giudici, eccone alcuni passi:

"In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. (...)

A Norimberga e a Gerusalemme sono stati condannati gli uomini che avevano obbedito. L'umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama la legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.

(...) avete il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto”.


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