L’indifferenza araba rispetto all’Olocausto

par Eleonora
sabato 28 gennaio 2012

Ieri 27 gennaio si commemorava la fine della Shoah, ma non abbiamo ancora disimparato a guardare l'Altro con diffidenza. Una critica ad un articolo di Antonio Ferrari di CorriereTv.

Antonio Ferrari ci ricordava la ricorrenza della Giornata della Memoria, l'anniversario dell'apertura dei cancelli di Auschwitz che ha, almeno simbolicamente, messo fine alla Shoah, cioè alla persecuzione e allo sterminio del popolo ebraico. Tuttavia la Giornata della Memoria ha assunto un significato molto più globale. Come sappiamo, già solo per fare un esempio, l'Arcigay commemora gli omosessuali vittime delle persecuzioni che avevano come fine non solo la distruzione di un popolo, ma l'epurazione di qualunque elemento contaminante che potesse indebolire la razza ariana.

Sono stati risucchiati in questo vortice di persecuzione e soppressione del diverso, infatti, ebrei, zingari, omosessuali, malati di mente, portatori di handicap, oppositori politici, anche religiosi, persone invise al regime, nemici di guerra. E' vero, quindi, che tecnicamente il Giorno della Memoria commemora la fine della Shoah, ma quanto è sintomo di un arretramento rispetto all'insegnamento che la fine della persecuzione dovrebbe averci dato pensare di dedicare questa giornata solo ad una delle categorie che sono state perseguitate e barbaramente uccise?

La Giornata della Memoria è giornata di commemorazione per tutte le vittime di persecuzione, ma è principalmente la Nostra giornata di commemorazione, la giornata di noi europei che siamo eredi se non direttamente dei persecutori e dei perseguitati, almeno dei conniventi con quel massacro e di coloro che hanno taciuto. Ma questa mia precisazione non è che la prima in riferimento alla rubrica di Antonio Ferrari sull'indifferenza “araba” rispetto alla commemorazione dell'Olocausto.

Ecco alcuni dei punti salienti della mia critica.

"Nei paesi islamici che stanno cercando di imboccare la strada della Democrazia (…) il risentimento e il rancore nei confronti dello stato di Israele e della sua politica, a volte discutibile, quasi sempre si confonde con l'antisemitismo, dimenticando che gli arabi, come gli ebrei, sono semiti". Questa affermazione a me dice due cose. 

La prima è che il passaporto per passare da un sistema non democratico ad un sistema democratico è il riconoscimento dell'assoluta superiorità che ha la commemorazione dell'Olocausto sulle commemorazioni di qualunque altro massacro nella storia dell'Umanità. Gli “arabi” saranno democratici quando riconosceranno l'assoluta centralità dell'Olocausto (che nelle parole di Ferrari riguarda solo gli ebrei) come fonte di simboli, identità, riconoscimento, legittimità.

Perché l'Olocausto per noi rappresenta il discrimine fra una civilizzazione solo apparente e una barbaria mascherata dal progresso, quella dei regimi fascisti, e una civiltà che, in quest'ottica è invece assolutamente democratica. Ma è stata una nostra precisa scelta attribuire all'Olocausto questo significato, più che giusto perché noi siamo figli di quel che è accaduto e sul fare ammenda per le colpe che abbiamo commesso abbiamo fondato i progetti per un futuro più giusto.

Quanto poi abbiamo realmente imparato è oggetto di discussione. Non per questo siamo più barbari o meno democratici se non riconosciamo un'importanza eguale al Genocidio Armeno, al Genocidio del Ruanda, alle persecuzioni dei Curdi e dei Palestinesi e a tutte le altre forme di discriminazioni che hanno portato alla morte di migliaia di persone?

Ma noi, europei illuminati, vogliamo che gli altri acquisiscano i nostri modelli e i nostri riferimenti, anche quelli dolorosi, anche quelli che non appartengono alla storia dei popoli con cui interagiamo. Altrimenti li tacciamo di barbarie.

La seconda cosa che mi viene alla mente è che esista nella realtà dei fatti una etnia araba di origine semita. Parlando della Shoah si può parlare di “ebrei”, pur sapendo quanto sia difficile affibbiare una sola categoria a individui di cultura, estrazione sociale, esperienze e storia diverse, dal momento che individui diversi fra loro sono stati perseguitati perché, a parere di altri individui, ricadevano sotto la categoria limitante (nel senso che non ci restituisce la misura della diversità culturale in seno a questa categoria) di “ebrei”.

Ma come non si può parlare di “europei” (chi si sognerebbe di dire che gli europei siano un popolo omogeneo?) o di “ebrei”, o di “cristiani” (ci sono i cristiani cattolici, i protestanti, i copti e ancora di queste categorie ci sono sottocategorie di cui fanno parte individui che abitano in ogni parte del globo), non si può parlare di “musulmani” come di un individuo a più teste o di “arabi”, che poi sarebbero semiti. Gli “arabi” non esistono come gruppo culturale omogeneo, non esistono come etnia unica. Non esistono neppure come unica visione rispetto all'Olocausto e ad altre questioni, come Ferrari è costretto ad ammettere.

Gilbert Achcar nel suo The Arabs and the Holocaust parla proprio di quanto sia vario e non omogeneo il rapporto dai cosiddetti “arabi” con la questione. Poi, se anche esistessero gli arabi come unico gruppo omogeneo per storia, cultura e territorio e anche fossero “semiti” cosa vorrebbe dire? Anch'io sono caucasica e ci sono sicuramente delle ricorrenze che riguardano altri caucasici che non commemoro. Sono barbara per questo? O forse semplicemente anche la morte e le sue commemorazioni, col tempo, diventano simboli, cultura che appartengono ad un gruppo che se ne sente toccato, che appartiene a quel retaggio, che sceglie di farne oggetto di memoria? Cos'è questo? Razzismo positivo?

Poi Ferrari cita Abu Mazen e le sue tesi negazioniste, o meglio: l'idea che l'Olocausto sia stato ingigantito per farne uno strumento culturale di legittimazione per l'Occidente. Come se queste idee appartenessero solo agli “arabi” e questo chiudesse la questione: se un uomo politico “arabo” (palestinese) la pensa così, gli “arabi” sono indifferenti ai dolori dei perseguitati della Seconda Guerra Mondiale.

Se non sbaglio sono idee più o meno simili a quelle espresse da Norman Finkelstein, che tutto è tranne che “arabo”. Anzi, è figlio di sopravvissuti del Ghetto di Varsavia e il suo aver definito l'Olocausto degli ebrei “un'indispensabile arma ideologica” lo ha reso inviso a parecchie persone. Ora anche gli ebrei statunitensi sono antisemiti?

Meno male che, se non altro, verso la fine Ferrari riabiliti almeno un arabo, Khaled Abdul Wahab, tunisino che ha salvato degli ebrei dalla deportazione "perché ha dato ascolto alla sua coscienza". A lui è dedicato un albero nella Foresta dei Giusti di Milano.

Altrimenti questo pezzo sarebbe stato troppo generalista. Un'ultima cosa: non tutti coloro che criticano Israele sono antisemiti, così come se ci sono degli antisemiti fra gli anti-israeliani, non significa che la critica alle azioni “a volte discutibili” di Israele sia meno legittima. Altrimenti sembrerebbe di far parte di una tifoseria e si perderebbe la tensione all'obiettività che dovrebbe essere requisito indispensabile per fare del buon giornalismo.


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