L’evoluzione della crisi siriana: dove va il Medio Oriente?

par Fabio Della Pergola
giovedì 11 ottobre 2012

Una delle domande ricorrenti sulla drammatica guerra civile siriana riguarda l’identità dei misteriosi artiglieri che sparano colpi di mortaio verso il territorio turco.

Una famiglia massacrata, alcuni feriti e danni limitati, ma anche un alto timore che il conflitto si allarghi verso dimensioni difficilmente circoscrivibili e ancor più difficilmente prevedibili.

Che dietro la Turchia ci sia la Nato lo sappiamo tutti, e che dietro la Siria ci sia l’Iran, ma anche una Russia poco propensa ad abbandonare il regime di Assad al suo destino, anche questa è cosa nota. Il conflitto siriano rischia dunque di allargarsi verso scenari apocalittici, come una possibile resa dei conti USA-Iran, con la Nato tirata dentro per i capelli e con Israele come spettatore (?) piacevolmente sorpreso che qualcuno gli tiri fuori le castagne dal fuoco; oppure come attore protagonista al fianco degli ostili (ex-amici) turchi.

La memoria non può che andare al giugno del 2011 quando una manifestazione di “profughi” palestinesi e siriani (tutti piuttosto giovani, da cui il dubbio che il termine ‘profugo’ sia usato poco correttamente in questo caso) tentarono di forzare il confine israeliano sulle alture del Golan.

L’occasione era il 44° anniversario della Naqsa (la sconfitta araba nella guerra dei sei giorni), preceduta un mese prima da una manifestazione simile organizzata sul confine libanese per il 63° anniversario della Naqba, la catastrofe palestinese in seguito alla nascita di Israele; anche in questo caso si voleva celebrare l’anniversario abbattendo simbolicamente il confine dello stato ebraico.

In entrambi i casi la reazione israeliana fu estremamente dura e numerose persone persero la vita. Molti commentatori si sono chiesti il motivo di una reazione così sproporzionata rispetto alla reale portata dei fatti, ma non mancarono di evidenziare che i primi segni della ‘primavera siriana’ erano già evidenti da alcuni mesi, con decine di morti proprio nei giorni della manifestazione al confine.

E forse è superfluo ricordare che in Siria non ci si avvicina ai reticolati israeliani se i servizi di Assad non lo permettono, così come in Libano non lo si fa se Hezbollah non vuole.

Non furono pochi perciò gli analisti che interpretarono i fatti sanguinosi al confine come un tentativo del regime di esportare la crisi interna verso il più classico dei nemici esterni. Per compattare il mondo arabo contro l’avversario di sempre o per ricordare ai ribelli che il nemico dell’Islam non era Assad, ma il sionismo. O, più banalmente, per distrarre l’attenzione popolare e mediatica dalla fragilità crescente del suo regime.

A distanza di un anno e poco più, la vicenda sembra ripetersi a danno questa volta del vicino turco, ex buon amico del regime baathista ed oggi ripetutamente provocato prima con l’abbattimento di un jet della propria aviazione militare, poi con l’intensificarsi degli attacchi curdi latentemente (ma non tanto) lasciati liberi di agire dai siriani ed ora con i colpi di mortaio ripetuti per giorni.

Bastano le scuse del regime per calmare il governo di Ankara, determinato a parole, ma estremamente prudente nelle risposte sul campo ?

George Sabra, esponente cristiano dell’opposizione siriana, intervistato dall’Unità parla abbastanza chiaramente: “Quei colpi di mortaio sparati contro i villaggi turchi di confine non sono un “incidente” ma una scelta meditata da parte di Bashar al-Assad: quella di regionalizzare il conflitto”. Dove per “regionalizzare” si intende chiamare in causa direttamente le forze “amiche” più vicine, tipo Hezbollah, capace di travolgere il Libano nell'ennesima catastrofe o, di nuovo, il nemico giurato israeliano (recuperando in questo caso le simpatie di Hamas, oggi più vicina ai ribelli che ai governativi); ma tirare dentro anche l’Iran e la Russia che non vuole perdere le sue uniche basi navali nel Mediterraneo. Rischiando, provocando la Turchia, di tirarsi addosso la Nato.

Assad però non è uno sconsiderato inesperto. Sa bene come tutti siano (per ora) restii a lasciarsi coinvolgere in un gioco al massacro dagli esiti imprevedibili (sbagliato: gli esiti sono prevedibili e si chiamano conflitto USA-Nato-Israele contro Teheran).

Lo scenario siriano è lo schema in scala minore di quello iraniano. Se salta il tavolo a Damasco il mondo si avvicina paurosamente al conflitto iraniano. E Assad lo sa; e sa che il mondo non è ancora pronto per questo (non finché c’è Obama a Washington, non finché la crisi economica travaglia l’Europa). E sa quanto sia forte l'opposizione verso pericolose avventure militari, a partire proprio da Barack Obama fino agli alti vertici delle forze armate israeliane.

Per questo, forse, sarà disposto ad alzare il livello dello scontro fino a che le potenze vicine non capiranno l’antifona e non cominceranno a smorzare i toni e gli aiuti all’opposizione. Una disdetta per il mondo sunnita impegnato ormai da tempo a contrastare la crescente influenza sciita nel vicino oriente e, forse, una disdetta per chi in Israele voleva forzare la mano e fare i conti una volta per tutte con il regime degli ayatollah, travolgendo nell’attacco anche i siriani nemici di sempre (ma che fino all’anno scorso hanno anche garantito per mezzo secolo una sostanziale tranquillità sul Golan).

Il discorso di Netanyahu all’ONU sembra aver rimandato la questione del nucleare iraniano alla prossima estate (magari con un Romney alla Casa Bianca ?), favorendo di fatto la politica delle sanzioni; la presumibilmente prossima crisi di governo a Gerusalemme, con prevedibili elezioni anticipate, conferma un allentamento della pressione da parte del governo di Gerusalemme che bilancia l'aumento della pressione da parte siriana. In attesa di vedere chi siederà sullo scranno più alto d'America.

Forse i vasi comunicanti del medioriente in fiamme si stanno avvicinando al momento dello stallo; al nulla di fatto (salvo per i trentamila che ci hanno già lasciato la vita). Fino al prossimo giro, naturalmente.


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