L’atomica di Teheran e l’apocalisse che verrà

par Daniel di Schuler
lunedì 13 febbraio 2012

"Nonostante le pressioni siamo diventati un Paese nucleare" ha detto Mahmud Ahmadinejad in un discorso tenuto a Teheran nel corso delle celebrazioni del 33° anniversario della rivoluzione islamica. Resta da capire cosa intendesse con quell’espressione, il presidente iraniano, e in che cosa consistano gli “importanti progetti nucleari” che ha annunciato saranno avviati nei prossimi anni, ma non ci possono essere molti dubbi  alcuni aspetti del futuro, più che mai incerto, verso cui ci stiamo avviando.

Avevo undici o dodici anni quando, seguendo le istruzioni fornite da un'appendice del libro di "applicazioni tecniche", mi sono costruito una radio partendo da materiali semplicissimi: una basetta di compensato, delle spire di filo di rame per bobina, un auricolare, sottratto alla radiolina giapponese di mio padre, per altoparlante, e poco altro. Senza un circuito di amplificazione (ho scoperto dopo la magia del transistor) e senza un condensatore variabile che consentisse la sintonia, il mio capolavoro riceveva, tra fischi e scariche, una sola stazione, però, e questo era l'importante, funzionava.

Quel successo, oltre a riempirmi d'orgoglio, mi condusse a compiere una riflessione che mi spaventò e che, seppure non fossi particolarmente sveglio, conserva tutta la sua validità: "Se uno come me, oggi, può fare in casa quel che sessanta anni fa era considerato quasi magia, domani ci saranno dei ragazzini che, per giocare, si costruiranno una bomba atomica".

Non siamo arrivati a questo punto, ma ormai le armi nucleari sono alla portata di qualunque stato sovrano; le hanno il Pakistan e la Corea del Nord, dell'Iran abbiamo appena detto e ne disporranno, prima o poi, anche altri paesi che non appartengono a quello che fino a poco fa si diceva primo mondo.

Sono questi sviluppi, in larga parte ignorati dai media e lontanissimi dall'attenzione dei più, che rischiano di scatenare il diluvio universale prossimo venturo; il cataclisma da fine dei tempi o quasi.

Soprattutto, cambieranno radicalmente i rapporti di forza tra stati; determineranno un nuovo modello, tutto da definire, di relazioni internazionali: un cambio di paradigma analogo, per portata, a quello imposto dalla polvere da sparo.

Nessun ideale ha contributo alla diffusione della democrazia, o comunque a forme di potere basate sul consenso, quanto il fucile.

Nel mondo antico, quando a dettar legge era la spada, il cui maneggio richiedeva anni di allenamento, bastavano pochi soldati, di fatto quasi invulnerabili ai forconi di eventuali rivoltosi, per mantenere al potere un tiranno o tenere unito un impero. Roma controllava le sue province mantenendo in ognuna di loro una legione, o al massimo due, di seimila uomini; poche decine di armati erano tutto quel che serviva, nel medioevo, per tenere in pugno un feudo.

La polvere da sparo, dapprima, fino a che rimase monopolio del potere, accentuò questo stato di cose: pochi archibugieri spagnoli conquistarono le Americhe; agli inglesi fu possibile costruire il lor immenso impero perché non serviva loro più di una compagnia di fanti, o al massimo un battaglione, per mantenere il controllo di ognuna delle colonie africane.

Fu quando le armi da fuoco divennero tanto comuni che chiunque poteva procurarsene una, che tutto cambiò. Le monarchie assolute crollarono quando un borghese, senza nessun addestramento, fu messo in condizione di poter uccidere una guardia regia con un colpo di moschetto; mantenere il controllo di un paese contro il volere dei suoi abitanti, l’Iraq insegna, è diventato costosissimo, nei fatti quasi impossibile, da quando un ragazzino, o una vecchietta se è per questo, può segare in due il più addestrato dei soldati con una raffica di fucile mitragliatore.

La “democratizzazione” dell’atomica cambierà i rapporti tra gli stati, in modo del tutto simile. Non importa quale sia la differenza di potenziale industriale tra due paesi; quanto uno sia più grande dell’altro e quanto infinitamente più potenti le sue forze amate tradizionali: se entrambi hanno delle armi nucleari, sono, di fatto, sullo stesso piano.

Neppure il monopolio dei vettori, il possesso esclusivo di razzi e bombardieri, consente ad una superpotenza di pensare di poter svolgere il proprio ruolo, in futuro, nei termini attuali: un’atomica, magari “sporchissima”, rudimentale quanto quella mia radio, può viaggiare anche dentro un container, prima di esplodere sulla banchina del porto di Newark o di Los Angeles, e non ci vuole la fantasia di uno sceneggiatore hollywoodiano per immaginarlo.

La politica dei bombardieri che abbiamo visto applicare in Libia, moderna traduzione di quella delle cannoniere, ha i decenni contati; il suo più sicuro effetto, infatti, è proprio la proliferazione delle armi nucleari: qualunque regime, sa che solo il possesso dell’atomica, come dimostra l’impunità delle Corea del Nord o del Pakistan, può garantirgli la sicurezza nei confronti dell’intervento occidentale.

Non ho delle ricette da proporre; non so come potremo uscire da una spirale che sembra portare verso una folle guerra fredda generalizzata, che avrà tante più possibilità di trasformarsi in un olocausto nucleare quanti più saranno i suoi protagonisti.

Per certo non possiamo più, come occidentali, pensare di continuare a governare paesi lontani tramite i nostri burattini; aiutando questo o quel dittatore a conquistare il potere, salvo rimuoverlo non appena osi andare contro i nostri interessi.

Ogni nuovo Saddam o Gheddafi ha, già ora, la possibilità di procurarsi per davvero un’atomica da puntarci alla tempia.


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