L’ateismo impegnato nel ritratto di John Gray

par UAAR - A ragion veduta
martedì 14 aprile 2015

Un mese fa il Guardian ha pubblicato un lungo attacco all’ateismo militante da parte del noto filosofo John Gray. L’articolo è stato tradotto e pubblicato sull’ultimo numero di Internazionale e merita quindi una replica articolata.

Lo spunto di partenza di Gray (che a sua volta si dichiara ateo) è la paura che attanaglierebbe gli atei militanti, anzi ,“il panico che li coglie quando si rendono conto che gran parte dell’umanità respinge i loro valori”. Esempi di tale “panico”, però, non ne porta. Gli atei impegnati fanno di solito ampio ricorso ai dati di fatto, e sarebbe dunque bizzarro se mettesse loro paura un’evidenza conclamata da millenni. Più che altro, Gray si sofferma sulla mancata realizzazione di certe aspettative: che sarebbe anche vero, se si riferisse ai positivisti. I quali vivevano però oltre un secolo fa. In effetti l’articolo, che vorrebbe criticare gli atei odierni, comincia inopinatamente ricordando Ernst Haeckel, l’eugenetica e la fascinazione che esercitò inizialmente su Julian Huxley. Ok, ci sta: ma quantomeno Huxley modificò le proprie idee. Che dire di Alexis Carrel, premio Nobel convertitosi al cattolicesimo, collaborazionista a Vichy, ancora oggi celebrato dal mondo cattolico nonostante facesse controllare la “qualità genetica” degli immigrati?

È forse questa la religione che, secondo Gray, si starebbe “riaffermando dappertutto”? A suo dire, il jihadismo negherebbe nei fatti la “marcia trionfale del secolarismo”. Anche questo può essere vero, perché di fronte all’ascesa di un fenomeno contrario al proprio si tende a serrare i ranghi. Ma sembra confondere la causa con l’effetto: è la diffusione del fondamentalismo a costituire una reazione a un’epoca che sembra prendere una direzione non voluta, quella della secolarizzazione. Ed è semplicemente falso che la religione nel suo complesso si stia riaffermando. Le apostasie sono ovunque ben più numerose delle conversioni, persino nei paesi arabi.

L’errore di Gray, che innerva tutto l’articolo, è di ricorrere in modo forsennato all’argomentazione dell’uomo di paglia, dipingendo in maniera caricaturale gli atei impegnati. Fa un solo nome, Sam Harris, ovvero il nome di uno che rifiuta l’etichetta stessa di “ateo”. Scrive che “praticamente tutti i pensatori laici davano per scontato che le società moderne sarebbero finite per convergere in qualche versione del liberalismo”, che gli atei militanti “nutrono la convinzione che tutti gli esseri umani nascano pacifici, amanti della libertà, e che diventino altro solo per un condizionamento oppressivo”. Ma non sono affatto opinioni universali, e nemmeno maggioritarie, all’interno dei movimenti atei. Afferma che “gli atei militanti negano risolutamente che la democrazia abbia bisogno di appoggiarsi al teismo”. Ed è vero: ma se è per quello lo negano quasi tutti anche in riferimento all’ateismo. È l’aspetto che sfugge visibilmente al filosofo, tanto che non tenta nemmeno di dimostrare perché la democrazia dovrebbe invece appoggiarsi in qualche modo al teismo. Sfoggia invece un incredibile, nostalgico ricordo degli imperi ottomano e asburgico, per proseguire con l’altrettanto incredibile, apologetica tesi che l’invenzione della laicità sia da ascrivere a Paolo e Agostino. Una ripassata di duemila anni di pensiero cattolico sull’argomento non gli farebbe male.

La tesi centrale di Gray è che “l’ateismo militante è un’impresa missionaria che punta a convertire l’umanità a una particolare forma di non credenza”. Anche in questo caso non è per niente vero. L’ateismo militante — che forse conosciamo un po’ meglio di lui — si batte affinché ognuno sia se stesso. Altro che convergenza su un pensiero unico: è esattamente il contrario. Ma a Gray piace dipingere gli atei impegnati come “evangelisti”. Aveva del resto già formulato le stesse accuse due anni fa su Repubblica, e dunque, se è legittimo equiparare allo spirito missionario la reiterata critica alla religione, allo stesso modo può allora essere tacciata di “spirito missionario” anche la sua reiterata critica all’ateismo militante. Ma ne vale la pena? L’ateismo e la fede sono entrambi fenomeni complessi che dovrebbero essere affrontati sulla base di evidenze, non con esercizi di stile zeppi di slogan e stereotipi che non consentono alcun salto di qualità al confronto. E questo vale allo stesso modo sia per chi critica gli atei, sia per chi critica le religioni.

Raffaele Carcano, segretario Uaar

 


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