L’Italia (s)vende, il Qatar compra

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mercoledì 18 luglio 2012

Il piano di privatizzazioni di Monti prevede di ridurre il debito pubblico di 15-20 miliardi all'anno per cinque anni, ma il passato ci insegna che dismissioni non hanno mai portato i benefici sperati. Il precedente del 1993. Nel frattempo il Qatar ci sta comprando poco a poco.

La politica di dismissioni di beni pubblici annunciata da Monti due mesi fa - da implementarsi attraverso tre fondi comuni pubblici, due immobiliari e uno mobiliare - si prefigge di fornire allo Stato la liquidità necessaria per ridurre il nostro ipertrofico debito pubblico, ormai non troppo lontano dalla fatidica soglia dei 2000 miliardi di euro.

In questi giorni, il neoministro dell'Economia Vittorio Grilli promette un'imponente piano quinquennale di cessioni. Se il patrimonio immobiliare nazionale ammonta a 300 miliardi di euro e quello degli enti locali a 350, l'idea è quella di alienare beni per 15-20 miliardi all'anno - poco più di un punto percentuale di PIL all'anno - per cinque anni.

Non è la prima volta che si tenta la dismissione delle partecipazioni statali e degli enti locali. Ora, a parte il fatto che l'idea dei tre fondi ricalca abbastanza fedelmente il piano lanciato dal seminario indetto da Tremonti lo scorso settembre, poco prima che gli eventi precipitassero e il piano fosse accantonato insieme al Governo Berlusconi, il passato insegna che in Italia la strada delle privatizzazioni è sempre stata in salita. Con pochi e scarsi risultati.

Vent'anni fa, la campagna di privatizzazioni augurata in pompa magna da Ciampi non portò i benefici tanto agognati. Lo spezzettamento e la successiva vendita dell’IRI, ad esempio, procurò al governo 150 mila miliardi di vecchie lirema neppure un soldo fu destinato alla riduzione del debito pubblico. Un precedente di certo poco incoraggiante.

La principale differenza rispetto al 1993 sta nella presenza di attori esteri danarosi e lungimiranti, i quali sono adesso alla finestra in attesa che il bazaar Italia apra i battenti per questa nuova stagione di saldi.
In prima fila, oltre alla Cina - interessata a rilevare quote di ENI, specialmente dopo i felici sviluppi delle attività di ricerca in Mozambico - c'è l'intraprendente emirato del Qatar. Per avere un'idea di cosa è questo piccolo ma ambiziosissimo Stato, consiglio questa analisi su Tempi.

I rapporti con l'Italia hanno subito un'impennata proprio negli ultimi mesi, guarda caso nel momento in cui da noi si è iniziato a parlare di dismissioni e privatizzazioni. Dopo il tiepido incontro con Monti dello scorso aprile, in cui l'emiro Hamad bin Khalifa al-Thani ha manifestato qualche dubbio ad investire nel Belpaese per via della corruzione (della serie: il bue che dice cornuto all'asino), oggi l'asse Italia-Qatar sembra promettere bene. Il nostro Paese è la principale meta europea degli investimenti di Doha assieme alla Franciadi cui l'emiro al-Thani è praticamente il nuovo re. Grazie ai recenti accordi energetici con Giappone e Turchia, l'emirato si è garantito le risorse necessarie per procedere ad una nuova ondata di acquisti:

In Italia, dopo l'acquisto a suon di petrodollari della Costa Smeralda, il Qatar sarebbe in pole position per prendere il controllo delle quote di Snam Rete Gas che l'Eni sarà costretta a cedere nei prossimi mesi. Ma l'interesse dell'emirato non si limiterebbe al settore energetico: i movimenti che nelle ultime settimane hanno fatto volare in borsa il titolo Unicredit sarebbero riconducibili al fondo sovrano dell'Emirato, intenzionato ad acquisire una quota rilevante del capitale di piazza Cordusio. Il braccio finanziario della piccola monarchia sunnita andrebbe di fatto a sostituire i libici in quella che, nonostante i rovesci dell'ultimo anno, resta una delle banche più solide d'Europa.

Italia Oggi aggiunge:

Quando c'è di mezzo il Fondo sovrano del Qatar, uno dei più ricchi al mondo, è bene drizzare le antenne. Dicono che gli uomini dell'emiro Hamad bin Khalifa Al Thani, che pochi mesi fa ha incontrato il premier Mario Monti a Roma, stiano trattando l'acquisto della rete tv La7 da Telecom e una partnership con Mediaset per la tv a pagamento Praemium. L'emiro già possiede la tv al Jazeera, emittente leader nel mondo arabo, seguita da 220 milioni di persone in decine di Stati. Se le voci saranno confermate, sarà l'ennesimo acquisto di un pezzo dell'economia italiana da parte del fondo Qia (Qatar Investment Authority), braccio operativo del Fondo sovrano del Qatar, con un capitale sociale di 85 miliardi di dollari e 130 miliardi da investire in 5 anni. Già ora la lista degli acquisti del Qatar in Italia è rispettabile: l'Hotel Gallia a Milano (130 milioni di euro), il 45 per cento del rigassificatore di Rovigo (in partnership con Exxon Mobil e Edison), gli alberghi più lussuosi e i terreni della Costa Smeralda (trattativa in corso per 60 milioni di euro), più una quota Eni del 3 per cento (una trattativa molto riservata, che nessuno degli interessati ha finora escluso).

La sinergia con Mediset rivela le mire dell'emirato sul mercato televisivo italiano:

Ora le mire dello sceicco, attraverso al-Jazeera, si spostano anche in Italia, dove, dovessero andare in porto, al-Thani si troverebbe proprietario del terzo polo tv nazionale e socio in affari con la pay-tv di Berlusconi che conta già una non disprezzabile base di 2 milioni di spettatori.

Acquisti a cui si è aggiunto di recente, come già anticipato su Investire Oggi, il marchio Valentino. Ah già, dimenticavo Ibrahimovic e Thiago Silva...

Al di là di questa sommaria ricostruzione, nessuno ha ancora indagato a fondo sulle reali intenzioni del Qatar nei confronti del nostro Paese. Quando Monti ha invitato l'emiro ad investire da noi, forse nessuno, neppure lo stesso Monti, si era reso conto dell'asimmetria esistente tra domanda ed offerta. L'intento di Monti era incoraggiare l'ingresso di capitali stranieri nel mercato nostrano; quello dell'emiro, accaparrare asset per estendere la propria longa manus sul vecchio continente. L'intraprendenza dell'emirato è inversamente proporzionale alla sua trasparenza., il che non è esattamente il miglior biglietto da visita per un investitore.

Rispetto al 1993 il rischio non è vendere e stravendere senza ridurre di una virgola il nostro debito. E' quello di ritrovarci al guinzaglio di un padrone di cui conosciamo poco o nulla.


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