L’Italia nel mondo ai tempi della "neopolitica", fra nuove ambizioni e antiche diffidenze

par David Incamicia
giovedì 15 marzo 2012

Il blitz delle forze speciali britanniche in Nigeria di qualche giorno fa, nel quale è rimasto ucciso il nostro connazionale Franco Lamolinara da tempo ostaggio, assieme a un cittadino di Sua Maestà, di una cellula locale di fanatici islamisti legati ad Al Qaeda e, ancor prima, l'inspiegabile arresto - se non per ragioni di propaganda interna e per mire espansionistiche su scala globale - di due nostri Marò da parte delle autorità indiane per l'assassinio di altrettanti pescatori del posto hanno scatenato un acceso dibattito sul peso strategico del nostro Paese nello scacchiere internazionale.

A dire il vero, se ne sta discutendo innanzitutto perché le vicende in questione sono state utilizzate da alcuni partiti italiani per placare o nascondere, dietro una polemica strumentale, frizioni profonde che li attraversano da quando l'inconcludente politichetta nazionale è stata rimpiazzata alla guida del Paese, con modalità ruvidamente ma giustificatamente sbrigative, da un governo "neopolitico" chiamato a svolgere la suprema funzione di amministrare la res publica mettendo le proprie eccelse competenze tecnico-specialistiche al servizio della polis senza doverla modulare sulla spasmodica ricerca del consenso alla stregua della vetero politica apparato-centrica.

Si avverte, insomma, nelle critiche che in queste ore vengono rivolte a Monti e ai suoi ministri, il retrogusto dell'insofferenza e della rivalsa. Tanto che è opportuno tentare un'analisi scevra da pregiudizi e il più possibilmente oggettiva intorno al ruolo e all'impegno dell'Italia a livello globale, non limitando le considerazioni ai fatti dell'attualità ma ricostruendo il tradizionale approccio geopolitico dell'Italia e gli effetti che da esso sono quasi sempre scaturiti.

La doverosa premessa è che nel giro di pochi mesi siamo passati, certamente solo sul piano degli equilibri economici e finanziari, dall'essere guardati dagli interlocutori planetari come un sopportato e gravoso problema all'essere valutati come un modello - non meno sopportato - di virtuosa autorevolezza. Alle pacche sulle spalle date a Berlusconi - ma pure a Prodi - dalle principali cancellerie e amministrazioni occidentali, e ad una politica estera non di rado coincidente con la ricerca di affari perfino di carattere personale con le peggiori satrapie ed oligarchie del pianeta (in assoluta continuità con le pessime consuetudini della prima repubblica), è oggi subentrata una sincera ammirazione, con tanto di applausi nei consessi internazionali, alla sobria e rigorosa Italia del duo Monti-Napolitano.

Tuttavia, questo mutato clima non deve trarre in inganno. Il prestigio nel mondo non può derivare solo dai buoni risultati ottenuti in campo economico o dalla capacità di siglare accordi commerciali favorevoli, né tantomeno dalla supina accondiscendenza ad interpretare perennemente la parte di pavida e subalterna periferia dell'impero occidentale, ma deve essere conquistato anche attraverso il conseguimento di risultati in ambito politico e militare, l'unico dove realmente si misura il peso di una Nazione in un globo che continua a correre e a trasformarsi spesso al costo di conflitti che stravolgono radicalmente le sfere di influenza delle maggiori potenze.

Ed è proprio a questo livello che l'azione del nuovo Governo italiano, al quale bisogna comunque concedere l'attenuante del noviziato, ha maggiormente pagato dazio. Senza cedere a tentazioni neocolonialistiche e lungi dal seguire lo stesso sentiero intriso di spicciole esagerazioni populistiche già percorso da fogli come Il Giornale e Libero, è innegabile che l'Italia debba comunque imparare ad alzare la voce sulla scena mondiale quando è il caso di pretendere rispetto, sforzandosi di dare, nel contempo, un'immagine diversa di sé resettando e correggendo le antiche degenerazioni interne che le fanno difetto sul piano sociale, morale e culturale. E che storicamente le fanno guadagnare la diffidenza dei propri partner, in primo luogo sull'asse euro-atlantico.

Andando per ordine, l'episodio più drammatico della morte in Nigeria dell'ingegnere italiano Lamolinara, durante un attacco sferrato a insaputa del nostro Governo e dei nostri servizi dalle truppe del Regno Unito al nucleo di terroristi che lo teneva prigioniero con un collega britannico nel tentativo di liberarli, è la prova certificata di come, specialmente da parte di certa cultura protestante ma non solo di essa, la linea iper trattativista del nostro Paese sia da sempre avversata e giudicata debole dagli alleati.

Di esempi in effetti non mancano anche nel passato più recente, benché il governo di turno abbia sempre cercato di celare all'opinione pubblica la propria disponibilità a pagare lauti riscatti (con fondi pubblici o neri, con risorse attinte direttamente dalle casse dello Stato o girando denaro messo a disposizione da aziende partecipate come Eni e Finmeccanica molto attive in particolari aree a rischio dell'Africa e del Medio Oriente?) pur di far tornare a casa sani e salvi i nostri connazionali rapiti da milizie fondamentaliste o da pirati o da semplici balordi in cerca di fortuna.

Il mio pensiero è che l'Italia abbia sempre sbagliato a legittimare dette schiere di delinquenti, tanto nelle faccende interne quanto in politica estera, attraverso il ricorso a trattative condotte più o meno ad alto livello. E che la borsa della finanza statale vada allentata non per foraggiare chi agisce nell'illegalità e contro la sicurezza nazionale, ma piuttosto per condurre una lotta spietata ad ogni forma di organizzazione terroristica e criminale. Non essendo un fervente cattolico e nemmeno viziato nelle mie valutazioni da impostazioni culturali di matrice marxista, sento di poter comprendere, in questo caso specifico, il pregiudizio britannico nei nostri confronti pur deprecando, in quanto italiano, che un governo straniero abbia agito con l'inganno in una situazione che avrebbe richiesto un più ampio coinvolgimento dell'Italia.

Ma se proprio bisogna muovere una critica a Monti, è quella di portare avanti un atteggiamento ancora troppo timido e altalenante in politica interna rispetto alle tante resistenze che gli provengono dagli stessi partiti che lo sostengono in parlamento e dai numerosi gruppi di interesse che vogliono impedire il cambiamento di mentalità della società italiana. La questione delle liberalizzazioni dimostra che o la spinta riformatrice è decisa oppure è meglio rinunciare. Così come le iniziali incertezze nell'affrontare e risolvere una volta per tutte le intollerabili proteste contro l'alta velocità, che non fanno che rafforzare, fuori dei nostri confini, la diffusa opinione circa l'inaffidabilità del sistema Italia.

Oriana Fallaci scrisse nel suo celebre La rabbia e l'orgoglio, immediatamente dopo la strage delle Torri Gemelle di New York, che "E' un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! [Gli italiani] Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo. Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali...". Qualche decennio prima di lei, una illustre pensatrice di tutt'altro filone ideale come Natalia Ginzburg ebbe ad esternare pensieri non dissimili ne Le piccole virtù: "L'Italia è un Paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. E' un Paese dove tutto funziona male... E' un Paese dove regna il disordine, il cinismo, l'incompetenza, la confusione. E tuttavia, nelle strade, si sente l'intelligenza come un vivido sangue" .

L'intelligenza, la creatività, il talento quale marchio distintivo del nostro modo di essere ben riconosciuto nel mondo ma che troppo spesso viene sciupato da noi stessi in patria per il sopravvento della furbizia e degli egoismi, per le continue concessioni al degrado morale e per il viziaccio della frammentarietà ideologica. Sinonimo, quella intelligenza al netto di ogni cattiva alterazione, di un altro aspetto di cui da sempre andiamo fieri ma che, forse, sarebbe il caso di rendere meno accentuato: la bontà.

In proposito Leo Longanesi, altro scrittore di successo poco amato in alcuni ambienti intellettuali "radical-chic" ma che ha forse rappresentato meglio di altri il nostro carattere identitario ad un tempo bonaccione ed infido, espresse in un suo volume una significativa frase a commento delle tensioni politiche e sociali derivate in Italia dopo il primo conflitto mondiale per gli esiti non del tutto soddisfacenti del trattato di Versailles, tensioni che favoriranno successivamente l'affermarsi di un terreno culturalmente fertile all'avvento del Fascismo. Egli scrisse che "Noi [l'Italia] siamo il cuore d'Europa, ed il cuore non sarà mai né il braccio né la testa: ecco la nostra grandezza e la nostra miseria".

Lo stereotipo degli "Italiani brava gente", insomma, specie laddove la bontà è il solo tratto alternativo rinvenibile accanto alla più consolidata e nota furbizia in ogni sua variante, può costituire un gravoso limite nella gestione delle nuove sfide internazionali ed ai fini di una piena tutela dei nostri interessi. Dobbiamo farci più cinici e cattivi.

Pertanto, tornando ai fatti recenti, occorre senza dubbio un chiarimento franco col numero 10 di Downing Street per la morte di Lamolinara così come col governo di New Delhi per il caso dei Marò, ma allo stesso modo è necessario rendersi conto che se davvero vogliamo ottenere uguale considerazione nel mondo di altre potenze del nostro stesso rango e finanche di Paesi emergenti, dobbiamo costringere noi stessi a reinventarci sul piano culturale e antropologico.

La vicenda dei due militari italiani trattenuti illegalmente in India è densa di enigmi e politicamente assai più complessa di quella che riguarda i rapporti con la Gran Bretagna. E' una storia che travalica la semplice relazione bilaterale fra due stati sovrani, investendo ben più ampi interessi e nascondendo altri risvolti nel grande ed eterno gioco degli equilibri geopolitici internazionali. Tanto che nemmeno la penna di un genio come John le Carré avrebbe potuto partorire un intrigo maggiore.

Definire "illegale" l'atteggiamento del governo indiano, che ha posto in stato di arresto due rappresentanti ufficiali di un'autorità straniera per l'uccisione, come detto, di altrettanti pescatori in acque internazionali, non è una forzatura né vuole far gioco al tentativo di sminuire le eventuali responsabilità dei nostri connazionali in divisa che vanno accertate, in virtù dei trattati vigenti, solo ed esclusivamente da parte della giustizia del nostro Paese. Tant'è che la procura di Roma ha già aperto un apposito fascicolo.

Il comportamento indiano, pur se da una prospettiva pratica differente, ha un precedente che ancora gronda sangue come quello riferito alla mancata consegna alle nostre autorità da parte del Brasile dell'assassino e terrorista Cesare Battisti. Ad accomunare le mosse dei due Paesi appartenenti al neo gruppo di influenza dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), vi è certamente l'ambizione di assurgere stabilmente al ruolo di potenza politica, economica e militare del globo.

Sia Brasile che India, infatti, sono in ballo per l'ottenimento di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, posizione alla quale aspira pure l'Europa attraverso la Germania. Il sospetto che quei due giganti demografici dell'America latina e dell'Asia stiano "giocando sporco" per costringere il vecchio continente a rinunciare alle proprie aspirazioni, usando a tale scopo le note debolezze e ingenuità italiane quale arma di ricatto, si fa quindi più che reale.

Per chi come me (e non siamo in pochi) non si sente di destra né di centro né di sinistra tout court, ma ama navigare "oltre", nel mare aperto dei post-ideologismi, e sa laicamente apprezzare quelle politiche tanto di destra quanto di centro o di sinistra ispirate semplicemente al buon senso e svincolate appunto dai dogmatisti, rimane valida quale principale causa giustificatrice delle lacune italiane in ambito geopolitico, ancor più che il carattere insieme indulgente e machiavellico, la complessità di un tessuto sociale interno tradizionalmente molto conflittuale.

E all'estero, a cominciare dall'Europa stessa che per questo, al di là degli attestati di stima pubblici, continua a considerarci in camera caritatis una inaffidabile fonte di grattacapi, sanno bene che per avere la meglio sui nostri interessi è sufficiente alimentare la faziosità politica e civile che ci contraddistingue e che pure disprezzano.

Così, quella varietà di impulsi culturali e perfino politici che dovrebbe di per sé costituire ricchezza e fungere da volano di coesione, di nuovo finisce per esporre l'Italia a cocenti sconfitte diplomatiche e strategiche. Mi rifaccio, in questo caso, a due illuminati pensatori del passato che hanno concorso alla mia formazione ideale per puntare l'indice contro tale nostra deformazione identitaria.

Il sempiterno Giuseppe Mazzini lamentava l'inestirpabilità dell'eterogeneità negativa del nostro essere popolo ma non Nazione già durante il processo unitario: "Noi non abbiamo bandiera nostra, non nome politico, non voce tra le nazioni d'Europa; non abbiamo centro comune, né patto comune, né comune mercato. Siamo smembrati in otto Stati, indipendenti l'uno dall'altro. Otto linee doganali dividono i nostri interessi materiali, inceppano il nostro progresso, ci fanno sentire come stranieri gli uni agli altri". Sembra uno dei tanti appelli del Presidente Napolitano alla politica e alla società italiane affette, oggi come allora, da profonde e nocive lacerazioni.

Ecco, ora abbiamo un solo Stato e una sola bandiera, ma continuiamo a dividerci in molteplici correnti e non soltanto in ambiti realmente decisivi ed utili a stimolare il nostro sviluppo complessivo. Anzi, il più delle volte l'eccesso di frammentazione si fonda su concetti e su obiettivi anacronistici e privi di senso e di visione.

Piero Gobetti, il padre del liberalsocialismo italiano, mezzo secolo dopo Mazzini decretava così ne La rivoluzione liberale, con crudo e rassegnato realismo, il fallimento della sciatta indole bizantina della nostra società: "Senza conservatori e senza rivoluzionari, l'Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico".

Non la furbizia, dunque, e nemmeno l'eccessiva bonarietà rappresentano il nostro principale fattore di inaffidabilità in campo internazionale quanto invece ed appunto l'eterna predisposizione a forme estreme di conflitto civile incardinate sulla più misera e vuota propaganda. E, anche in quest'ulteriore circostanza, sembra che quel vecchio e saggio repubblicano intendesse riferirirsi con decenni di anticipo ai fatti dell'ultimo ventennio.

Emblema di tale assunto, spiace doverlo ammettere, è altresì l'uso strumentale che a volte si fa del web. Lo stesso web che frequentemente ospita le mie riflessioni e quelle di altri netizen, e dove talvolta chi scrive ed espone un concetto non lo conosce affatto limitandosi a recitare a memoria, in nome di una cieca partigianeria, lo spartito desunto la sera prima dal monologo televisivo del Travaglio di turno.

Il web che si è levato come in un sol grido di dolore, con la solita ipocrita enfasi, per richiedere giustamente la liberazione della cooperante italiana Rossella Urru (della quale magari in molti nemmeno sapevano dell'esistenza fino a quando la sua corregionale Geppi Cucciari non ne ha parlato dal palco festivaliero) ma che invece ha sprecato pochissimi commenti, proprio come avvenuto in Tv fino a qualche giorno fa e come tuttora avviene da parte della società civile in senso lato, per esigere la stessa sorte per due altri italiani che, a differenza della prima, l'appartenenza alla nostra strana e imperfetta Nazione la portano addirittura incisa sugli abiti che indossano.

Tutti per Rossella, nessuno coi Marò... This is Italy, Mr. Monti. E lei, caro Professore, fra le tante promesse che ci ha fatto una in particolare ha il dovere di mantenere: cambiare gli italiani. Educarci ad essere Nazione civile con 151 anni di ritardo, diversa, migliore, realmente unita e favorevole al progresso, in grado di sedere al tavolo del Great Game mondiale con autorevolezza (e in questo senso già molti passi in avanti sono stati compiuti) ma pure con onore e rispettabilità.

Il povero Lamolinara avremmo dovuto provare a liberarlo anche noi con un blitz militare e non solo gli inglesi, quel delinquente di Battisti dovremmo andarcelo a prendere e rinchiuderlo in un carcere italiano se solo la nostra opinione pubblica non fosse come sempre manovrata dai guelfi e dai ghibellini che imperversano sui media, parimenti i due marinai del San Marco che dobbiamo farci restituire quanto prima e usando ogni arma di pressione di cui possiamo disporre. Perché oltre lo spread c'è la vita vera, fatta di sangue e di merda.

Per carità, nessuna voglia di nazionalismo all'amatriciana ma almeno un po' di sano patriottismo repubblicano, avendo ancora negli occhi le migliaia di Tricolori che hanno reso superbi i balconi dell'Italia intera fino a qualche mese fa, di certo non farebbe che accrescere il nostro credito internazionale.

Per dirla con le parole di un altro maestro del pensiero libero come Giulio Bollati, "Infiacchiti dalla lunga servitù politica, disavvezzi all'uso delle armi, esiliati nel sonno rissoso e velleitario dei borghi e delle città, gli italiani vanno risvegliati alla coscienza della patria comune, al ricordo dell'antica grandezza". Tutto il resto sono chiacchiere da bar che vanno lasciate agli abitanti delle valli e a quanti non riescono a vivere se non perennemente proiettati fuori dalla realtà e dalla storia.


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