L’Italia e gli scenari economici futuri
par Damiano Mazzotti
mercoledì 19 dicembre 2012
Il Mulino ha da poco pubblicato “Crescere si può”, dell'economista Francesco Daveri, un libretto sintetico e denso che spiega i principali punti deboli e punti di forza dell’Italia, utilizzando uno stile molto colloquiale e concreto.
Qualsiasi considerazione sullo stato di salute economica dell’Italia dovrebbe partire da questo dato: “la nostra industria rappresenta ancora il 19 per cento del nostro Pil, mentre in Inghilterra rappresenta solo il 16 per cento e in Francia il 12 per cento. Non siamo come i tedeschi, che sono al 26 per cento”. Molti risultati economici sono buoni, ma vengono gestiti male. Bisogna poi considerare che “Il 1995 è stato l’ultimo anno in cui la lira si è deprezzata consistentemente (il 10 per cento) rispetto alle altre valute. Da allora, la lira prima e l’euro poi hanno guadagnato valore rispetto alle altre monete”. Naturalmente la rivalutazione dell’euro dagli iniziali 0,78 dollari ai valori di oggi (1,31), è un indicatore del successo della valuta europea sui mercati finanziari.
Quindi il Pil italiano inizia a soffrire dopo il 1995, un po’ a causa della crescita cinese (eravamo i migliori produttori di beni a basso costo in Europa), un po’ per gli aumenti dei costi energetici, un po’ per l’aumento del costo del lavoro e delle tasse, un po’ per i troppi giovani e adulti che si sono adagiati sulle ricchezze passate, e un po’ per l’invecchiamento della popolazione che tende a investire nelle rendite. Keynes affermò che “il risultato del risparmio è di aumentare l’eccedenza di manodopera” e gli accadimenti italiani e giapponesi dimostrano che “In un paese vecchio si formano maggioranze politiche contrarie al cambiamento e all’innovazione” (Francesco Daveri).
Naturalmente le liberalizzazioni possono servire a modernizzare il Paese, se non vengono trasformate in oligopoli privati e se facilitano “l’ingresso di attori che hanno qualcosa di nuovo da apportare nei vari settori”. In ogni caso lo Stato deve fare cassa per “ripagare il debito accumulato, quindi ci darà indietro meno di quanto ci toglie dalle tasche”. Però non si possono interrompere gli investimenti, perciò si dovrebbero limitare le grandi opere per ottimizzare le risorse concentrandole in “piccoli poli di sviluppo intorno ai quali costruire i servizi di cui c’è bisogno”.
Il vero problema dell’Italia non è stato il passaggio dalla lira all’euro, ma ci fu nel 1981, quando si decise la famigerata separazione fra Tesoro e Banca d’Italia. Col tempo lo Stato italiano è arrivato a pagare cifre assurde per riottenere la moneta di cui si era privato. Arrivò a pagare “un tasso di interesse che si aggirava attorno ai 7 punti oltre il tasso dell’inflazione”, cioè ripagava l’acquisto di titoli di Stato con interessi intorno al 20 per cento. Perciò, “se lo Stato italiano – durante gli anni ’80, per incentivare le industrie del Nord e sostenere i disoccupati e coloro che fuoriuscivano dal mercato del lavoro – avesse ottenuto prestiti dal sistema bancario internazionale alle stesse condizioni finanziarie di un qualsiasi Paese del cosiddetto terzo mondo, oggi, il nostro debito pubblico si aggirerebbe attorno all’80 per cento del Pil!” (Nino Galloni, “Prendi i tuoi soldi e… scappa? La fine della globalizzazione”, www.edizionikoine.it, 2010).
A ben pensare l’euro non complica più di tanto la vita alle aziende esportatrici: “Se solo il 15 per cento dei prodotti esportati va in Asia, ben il 56 per cento va fuori dell’area euro. Un quarto dei beni e dei servizi esportati dall’Italia nel 2010 rimane nell’Europa non appartenente all’area euro: Regno Unito, Svizzera, Russia e Polonia. Probabilmente l’ostacolo più grande alle nostre esportazioni è la pigrizia mentale di imprenditori, manager e responsabili vari. Il continente americano è pieno di americani del nord e del sud di origine italiana che sarebbero desiderosi di assaporare i veri prodotti italiani di qualità, invece di accontentarsi delle cattive imitazioni.
Inoltre bisogna considerare che gli ottimi risultati dell’industria tedesca funzionano da traino per le aziende di nazioni come Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca, Austria e Italia. Comunque alla fine del saggio si riporta l’esempio del sistema economico finlandese, basato soprattutto sulle telecomunicazioni, che si avvia a superare la crisi della Nokia investendo in ricerca. Il sistema scolastico finlandese è uno dei migliori del mondo, quindi sarebbe il caso di offrire molti viaggi studio ai dirigenti inamovibili del Ministero dell’Istruzione e della Ricerca, e a tutti i nuovi arrivati del prossimo governo.
Naturalmente l’Italia dovrebbe aumentare gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo. Il nostro paese investe solo l’1,3 per cento del Pil, mentre la Finlandia è passata dal punto e mezzo di Pil del 1985 al quasi 4 per cento di oggi. In ogni caso le classi dirigenti italiane e i cittadini italiani devono maturare, devono investire nella crescita soft basata sull’innovazione tecnologica e sulle nuove idee gestite dai giovani. Non si può più governare un Paese attraverso la svalutazione della moneta che colpisce i redditi fissi, o mediante la politica di inglobare tutte le spese nel debito pubblico per farle pagare alle generazioni che non votano e ai cittadini non ancora nati. Si tratta di politiche incivili, immorali e davvero disgustose.
In conclusione posso affermare che sarebbe meglio seguire almeno uno degli scenari proposti dal professor Daveri: bisogna trasformare l’Italia nel più grande parco divertimenti d’Europa. E bisogna investire maggiori risorse nel marketing per esportare tutte le atmosfere della dolce vita.
Francesco Daveri ha insegnato Economia Politica e insegna Scenari Economici all’Università di Parma. Ha svolto importanti attività di consulenza internazionale e collabora con la Scuola di Direzione Aziendale della Bocconi (www.sdabocconi.it). In rete scrive su www.lavoce.info.