L’Italia al Mondiale tra i cartellini di Moreno e i capelli di Paletta

par Alessio Ghirlanda
mercoledì 25 giugno 2014

Penso alla fotografia di questa Italia mondiale, e non vedo il folle cartellino rosso sventolato in faccia a un (comprensibilmente) incredulo Marchisio al minuto '60 del match di das Dunas. Non vedo nemmeno lo scriteriato assalto vampiresco di Suarez ai danni di Chiellini, benché, ripensando all’episodio, mi senta in dovere di raccomandare il centravanti uruguaiano ad uno psicoterapeuta di grande esperienza. Quello che vedo, con sconforto che non so descrivere, è il tabellone del quarto uomo all’inizio del secondo tempo: fuori Balotelli e dentro Parolo.

Io sono un pessimista. Sarà che ho letto troppi aforismi di Murphy o forse che non mi piace credere nella divina provvidenza. Fatto sta che se esco e fuori c’è il sole mi premuro comunque di infilare un ombrellino tascabile in borsa. Mi sono approcciato a questo mondiale con la stessa filosofia: tanta cautela nei pronostici, molto timore nei confronti degli avversari e il generale presentimento di una disfatta catastrofica, ma sempre con la confortevole speranza di fondo di essere il solito disfattista tutto italiano e che, magari, gli Azzurri mi avrebbero smentito.

Ora, io sbaglio nell’approccio e non mi azzardo a negarlo, ma gli Azzurri non mi hanno smentito. Non contro l’Inghilterra, quando la vittoria è arrivata perché il reparto avanzato inglese è prolifico come quello del Pro Patria (sorry, Your Majesty); di certo non contro il Costa Rica, quando i nostri avevano evidentemente paura che gli sudassero troppo i piedi e hanno preferito non abbandonare mai le loro zolle di competenza (io con quel caldo mi sarei crocifisso di fronte a un condizionatore, però di contro non mi sarei aspettato una diretta della Rai); per quanto riguarda l’Uruguay, beh, siamo giusto qui per parlarne. Non vorrei doverne parlare, perché mi smuove una certa quantità di bile, pero tant’è.

Per cominciare è doveroso ricordare che l’Italia non è partita da Roma sotto i migliori auspici: defezioni illustri (Montolivo per me ha lo stesso valore strategico di un U-Boot arenato sull’Appennino calabro, ma onestamente Prandelli ci contava parecchio e la Nazionale l’ha allenata lui e non io, quindi c’avrà anche ragione), incertezza tattica diffusa, convocazioni quantomeno esitanti (perché non c’erano terzini sinistri di ruolo? Perché Cassano e non Pepito Rossi? Perché Paletta non si rasa?). Sui meriti e demeriti di Prandelli in tal senso si potrebbe discutere per ore, ma limitiamoci a dire che ha fatto delle scelte consapevoli e che ha sempre avuto il coraggio di risponderne in prima persona: gli siano testimoni le immediate dimissioni dopo la sconfitta contro la Celeste. Immaginiamo, quindi, di essere approdati in terra carioca con la miglior formazione disponibile, con un modulo collaudato e una rosa all’altezza del compito. Non credo sia così, per nulla, ma facciamo finta che.


Il vero problema, a questo punto, è stato la filosofia impartita alla nazionale azzurra in Brasile. Io ho visto una compagine arrendevole, provinciale, timorosa, inconcludente, arida di fantasia, che ha giocato due dei tre incontri della fase a gironi sperando in un pareggio. Badate bene, non difendendo un pareggio (che già di per sé sarebbe sbagliato, visto che fino a quattro anni fa eravamo campioni in carica), bensì augurandosi che rotolarsi nell’erba e fare un po’ di possesso palla sterile sarebbe bastato a sventare la minaccia protratta dagli avversari sudamericani. Non è andata a finire benissimo. L’Italia, per improvvisato che sia il suo schieramento tattico, deve giocare per vincere, anche a costo di imbarcare più gol di una squadra di Zeman: motivo per il quale la sostituzione di Balotelli (giusto richiamarlo perché imbrigliato e nervoso, ma Cerci o Cassano?) per Parolo mi ha nauseato. Se ti giochi il pass per gli ottavi di finale augurandoti che un Cavani sottotono e un Suarez fino ad allora apparentemente sopito possano decidere di graziarti, allora meriti di uscire. Discorso chiuso.

Credo in fondo di poter comprendere il Prandelli uomo. Nella sua Italia brasiliana ho rivisto inquietudini e incertezze di vecchia data, nonché una manciata di traumi infertigli dalla Spagna due anni fa agli Europei. In una settimana e mezzo di mondiale quel poveraccio ha messo su tanti di quei capelli bianchi che ormai le differenze con Doc di Ritorno al Futuro sono impercettibili. Quello che non comprendo e non giustifico è il Prandelli sportivo, che adesso tornerà a casa senza poter dire di averci provato: buona fortuna per il processo mediatico. E buona fortuna anche a Balotelli, che dopo il linciaggio che sta per ricevere abbandonerà definitivamente il Bel Paese e si stabilirà altrove (Inghilterra?). Mario è un bersaglio facile: se il pallonetto contro la Costa Rica avesse avuto miglior sorte il carro dei vincitori da lui guidato sarebbe stato affollatissimo, mentre l’aereo di ritorno sarà (è) spettralmente vuoto. No comment. Spendiamo anche una parola per Cassano e Thiago Motta, verosimilmente gli esseri umani più irritanti ad aver vestito la nostra casacca, che in qualunque altra Nazionale non troverebbero posto neanche a pagarlo (opinione, questa, viziata dalla mia antipatia viscerale verso i due, anche se Thiago Motta ha innegabilmente i piedi meno ‘educati’ in circolazione e Cassano sta evidentemente tentando di vincere un concorso per sosia di John Goodman). L’ultimo pensiero va rivolto a Paletta, che è riuscito a inquietarmi anche dalla panchina. Rasati, amico mio.

Stabilito inequivocabilmente che il tracollo ha avuto origini interne, è comunque anche vero che non spetta agli arbitri stabilire se un approccio tattico, per deprecabile e codardo che sia, debba funzionare oppure no. Dovesse esser vero il contrario allora ci toccherebbe conferire il Pallone d’Oro a Molinaro per premiarne l’impegno, ma io non mi ricordo di Molinaro con il Pallone d’Oro, non so voialtri. Un arbitraggio equo, per sgradevole che possa risultare a ogni amante dello sport, deve tutelare tanto i meritevoli come gli immeritevoli. Eppure, dopo aver visto Italia-Uruguay, ho la certezza pressoché assoluta che Marchisio abbia bestemmiato furiosamente in faccia alla figlioletta di Rodriguez Moreno nel prepartita, perché non esistono altre ragioni plausibili per quella sciagurata espulsione. Senza contare la non sanzionata follia cannibale di Suarez, che si commenta veramente da sola. Moreno è soltanto l’ultimo di una serie di direttori di gara totalmente inadeguati a un contesto sportivo di altissimo profilo: che Blatter si metta una mano sulla coscienza e segua l’esempio di Abete (utopia, lo so).

Fatta questa doverosa puntualizzazione, vale la pena tapparsi il naso e mandare un sincero ringraziamento a Moreno. Moreno ci ha fornito un alibi bello grosso: l’abbiamo pagato con amarezza, avvilimento, frustrazione e un fastidioso senso d’impotenza, ma è pur sempre un qualcosa che ci permette di salvare il salvabile. E parlo adesso di Verratti, tanto un diletto per gli occhi quanto una deliziosa promessa per il futuro; di Pirlo, sportivo di caratura incommensurabile e leggenda immortale del calcio; di Immobile, che stavolta non si è fatto trovare pronto ma ha la maglia da titolare tatuata sul petto. Io non credo che il nostro calcio sia tutto da buttare, benché naturalmente la fuga di talenti preoccupi anche me: penso però che nelle manifestazioni internazionali stiamo pagando la poca esperienza dei nostri interpreti migliori (Balotelli ha vinto una Champions semplicemente perché era nel posto giusto al momento giusto, mentre Pirlo e Buffon, poverini, ormai hanno un’età) e la scarsa, scarsissima lungimiranza di un’amministrazione che adesso si è provvidenzialmente messo da parte.

Ripartiamo da qui con più convinzione di prima e speriamo in un avvicendarsi favorevole ai vertici della FIGC, ché se ne sente il bisogno. Ma senza fare drammi, perché in fondo è solo calcio.

Purché Paletta si rasi.

 

 

Foto: Goal.com


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