L’Islanda come Amleto. EU o non EU?

par Clarissa Sgorbano
martedì 29 settembre 2009

L’isola più remota del Vecchio Continente ha iniziato le pratiche per entrare nella Comunità Europea, Cosa comporterebbe questo suo ingresso, soprattutto a livello economico, nel panorama della EU?

Il 16 luglio 2009 sono iniziate in Islanda i negoziati che permetterebbero l’ingresso di quest’isola dell’estremo Nord nell’Unione Europea.

Dal punto di vista ambientale questo Paese, ad oggi guidato da una coalizione che include anche i Verdi, ha fatto e sta facendo molto: il 99,9% viene fornito da fonti rinnovabili, nel ’98 il Parlamento ha avviato una procedura per eliminare tutti i combustibili fossili dall’isola volto a ottenere l’utilizzo di mezzi di trasporto ad idrogeno e, entro il 2050, il governo prevede di riuscire ad utilizzare solo energie rinnovabili.

Anche in tema di sanità l’Islanda è promossa con il massimo dei voti: tutti i cittadini hanno diritto a servizi sanitari e sociali, per cui lo Stato eroga il 40% delle spese in bilancio, non stupisce quindi che il tasso di mortalità infantile sia tra i più bassi al mondo e l’aspettativa di vita sia di 80,5 anni.

Ma non è finita: l’analfabetismo non esiste e la scuola è gratuita fino ai 16 anni, gli Stati Uniti hanno chiuso l’ultima base militare nel 2006 e il Paese è uno dei pochissimi al mondo a non possedere un esercito.

La cultura è continuamente incentivata. L’ambiente viene tutelato in maniera quasi ossessiva. Il tasso di criminalità della capitale, Reykjavìk, è praticamente approssimabile a zero. Il tasso d’informatizzazione è massimo.

Chi non vorrebbe l’Islanda nell’Unione Europea? L’Islanda stessa.

La mozione con cui il Paese ha iniziato le pratiche d’entrata nell’UE è passata con 33 voti favorevoli contro 28 contrari. Perché? Per via delle norme sulla pesca.

Il Trattato di Roma del 1957 stabilisce che debba esserci un’unica politica riguardo alla pesca, ma applicare la stessa normativa ad un Paese che annovera la pesca tra tante altre risorse e ad un Paese che ha nella pesca uno dei maggiori mercati non darà sicuramente un unico risultato.

Quello che l’Islanda teme con l’applicazione del CFP, Common Fisheries Policy, è, sostanzialmente, il fatto che il possesso delle compagnie di pesca diventerebbe affare comune e, presto o tardi, una parte delle industrie di pesca islandesi diventerebbe proprietà di stranieri (soprattutto considerando che l’Islanda oggi è in bancarotta).

"La realtà è che le pescherie sono un’industria marginale in termini europei" spiega Quentin Bates, giornalista che ha lavorato su pescherecci sia islandesi che inglesi, va quindi da sé che le decisioni prese a Bruxelles sarebbero, nella maggioranza dei casi, sfavorevoli per l’Islanda, in cui la pesca ha un peso molto maggiore che in molti altri Paesi.

EU o non EU? Questo per l’Islanda, scissa tra l’orgoglio vichingo di essersi sempre organizzata come meglio riteneva e il desiderio di entrare in un sodalizio che potrebbe esserle favorevole per molti aspetti (pesca esclusa), è un problema di proporzioni amletiche.


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