L’Isis che è in noi

par SiriaLibano
venerdì 12 settembre 2014

(di Hanin Ghaddar per Now. Traduzione dall’inglese di Camilla Pieretti).

Per quanto Qatar e Turchia continuino a sostenere politicamente Hamas, la realtà sul campo è ormai ben diversa. Gli Stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, hanno mostrato chiaramente di non essere disposti a tollerare che il Qatar si intrometta negli affari del mondo arabo senza il dovuto coordinamento e consenso. Inoltre, è poco probabile che l’Iran riprenda Hamas sotto la propria ala, dato che l’organizzazione continua ad appoggiare i ribelli siriani.

Forse per questo Hamas, branca dei Fratelli Musulmani, ha ricevuto così poco sostegno dal mondo arabo nell’ultima guerra a Gaza. L’organizzazione è perfettamente consapevole di aver perso consensi e alleati, ma, mentre Israele tiene Gaza sotto il solito, inarrestabile fuoco di artiglieria, Hamas pare pensare solo a rafforzare la propria posizione nei negoziati per il cessate il fuoco: crede ancora di essere la migliore delle alternative possibili e spera che i grandi attori internazionali la pensino allo stesso modo.

Tuttavia, dati i deludenti risultati della Primavera araba, Hamas dovrebbe aver capito che oggi gli arabi della regione si ritrovano a scegliere tra due sole forme di governo: l’Islam politico o l’autocrazia. In Egitto, l’alternativa a Muhammad Morsi si è rivelata essere un colpo di stato militare; mentre le dittature in Iraq e Siria hanno lasciato il posto alla violenza estrema dello Stato islamico (Is). Le alternative ad Hamas sarebbero quindi un gruppo estremista islamico o l’Autorità Nazionale Palestinese, debole e corrotta.

Ma se la Primavera araba ci ha condotto a questa nuova realtà delimitata così, è perché non ha fatto delle libertà personali e individuali che definiscono la vera cittadinanza il cuore dei suoi principi. In generale, la retorica dell’opposizione in gran parte dei paesi coinvolti nella Primavera araba ha totalmente ignorato i diritti e le libertà e trascurato i diritti delle donne e delle minoranze. Non siamo riusciti ad agire da veri cittadini, ed ecco che oggi ci ritroviamo prigionieri delle solite vecchie storie sulla teoria del complotto.

A giudicare dai recenti sviluppi in Iraq, Siria ed Egitto, pare che in questi tre anni di Primavera araba abbiamo imparato a comprendere le nostre mancanze, ma non a colmarle. Oggi sappiamo di poter scegliere tra due diverse opzioni: o la libertà, o la sicurezza, mai le due cose insieme. Se non altro, le esperienze di questi ultimi anni ci hanno insegnato che la sicurezza tende a presentarsi sotto forma di totalitarismo: o si accetta un regime militare, oppure ci si ritrova guidati da un governante fazioso, e finché non impareremo a dare il giusto valore all’individuo, le cose non cambieranno.

Un’altra delle lezioni che abbiamo imparato è che l’Islam politico è una forma di governo insostenibile, efficace soltanto come piattaforma di opposizione popolare. Tuttavia, continuano ad aprirsi spazi vuoti e il terrore dello Stato islamico presto spingerà la popolazione ad accettare i vecchi dittatori e capi militari, in attesa che l’Occidente intervenga a risolvere il problema.

Di fatto, l’Occidente ha deciso una settimana fa che non era disposto a tollerare l’Is e poco dopo gli Stati Uniti hanno cominciato a bombardare le su postazioni in Iraq. Il loro intervento ha fatto felici sia la gente comune sia i regimi, convinti che li attenda un futuro migliore. Ma è davvero una buona notizia? Il declino dell’Islam politico e degli estremismi potrebbe effettivamente dare nuove possibilità ai movimenti laici e democratici nei paesi arabi?

Crederci sarebbe una follia. Con l’eccezione di pochi attivisti, presto emarginati, le rivolte non sono riuscite a mirare al cuore dei nostri problemi: gran parte della gente cercava una libertà politica che non ha niente a che fare con il vero significato di cittadinanza, e raramente la retorica delle manifestazioni o dei movimenti di opposizione ha affrontato il tema delle libertà personali e individuali.

Se continuiamo a soffrire non è colpa dello Stato Islamico, dell’Islam politico o del mancato sostegno dell’Occidente. Il punto non è la contrapposizione tra Islam moderato e Islam radicale. Tutte queste questioni, incluso il conflitto sempre più sanguinoso tra sciiti e sunniti, sono il risultato di una condizione che ci definisce tutti, sciiti, sunniti, moderati ed estremisti. Il problema è che continuiamo a identificare ciecamente la democrazia con delle urne elettorali e con il diritto dei membri di partiti politici e gruppi confessionali diversi di calunniarsi l’un l’altro in televisione.

È preoccupante che un’attivista egiziana liberale, che si è opposta strenuamente sia a Morsi che a Sisi, si metta a contestare duramente i diritti sessuali delle sue compagne. Ed è ancora più sconcertante sentirsi dire da un attivista siriano laico, contrario sia ad Assad che all’Is, che adesso non è il momento di parlare dei diritti delle donne in Siria.

Quando sarà, allora, questo momento? Se davvero stiamo lottando per la libertà, adesso è il momento giusto per battersi per la libertà di ogni gruppo e individuo.

Per contrastare l’Is o altri gruppi estremisti e per evitare che sorgano nuovi dittatori, dobbiamo assumerci la responsabilità dei fallimenti colletivi che hanno aperto la strada a tutti questi despoti e fanatici. I nostri sistemi di comunicazione e di istruzione sono tra i principali responsabili del mostro che abbiamo contribuito a creare. Entrambi, infatti, riecheggiano in un inarrestabile circolo vizioso la retorica che ci è stata inculcata a scuola: che siamo vittime di un’enorme cospirazione e dobbiamo solo avere fiducia nei nostri leader. E noi non possiamo fare altro che adeguarci, perché altrimenti cominceranno i veri problemi.

Ecco perché i gruppi della società civile, le organizzazioni internazionali, gli attivisti laici locali e tutti coloro che vogliono spezzare questi vischiosi circuiti che ci controllano devono riunire le proprie forze e cambiare questa retorica di fondo, partendo proprio dalla disastrosa situazione del nostro sistema scolastico e di quello mediatico. Nei nostri curriculum scolastici dobbiamo abbandonare la chimera di una gloriosa Umma che non ha confini e cominciare a insegnare la storia come un processo in cui si vince e si perde. Dobbiamo insegnare ai nostri figli a imparare dai nostri errori e non a padroneggiare l’arte della negazione.

Solo quando i nostri insegnanti e giornalisti cominceranno a comprendere l’importanza dei diritti individuali e ad ammettere che non siamo riusciti ad essere dei bravi cittadini, potremo iniziare a sperare nella libertà, anche se per ottenerla ci vorrà del tempo.

Fino ad allora, gruppi come Hamas, Hezbollah o lo Stato islamico, regimi dittatoriali e politici corrotti continueranno ad avere la meglio. (Now, 22 agosto 2014)


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