L’Innocenza di Maristella la solidale

par Daniel di Schuler
sabato 4 settembre 2010

Il Ministro della Pubblica Istruzione, Maristella Gelmini, si dichiara solidale con i precari che, grazie ai provvedimenti da lei adottati, perderanno il propio posto di lavoro. C’è chi l’accusa d’essere ipocrita, ma lei, poveretta, non ha colpe.

Povera Maristella. Messa, chissà perché, a fare un lavoro nettamente al di sopra delle proprie possibilità, è spesso chiamata a rispondere delle proprie affermazioni da un’opposizione che si ostina a considerarla un ministro vero.

 

Ecco la dimostrazione dell’incapacità della sinistra di uscire da un’anacronistica visione del Paese; come si può pensare che nella nuova Italia berlusconiana un ministro, donna per di più, possa permettersi di fare alcunché di testa propria? Maristella è ministro, ma solo di nome; in realtà lei deve solo mettere quel suo bel faccino puntuto davanti le telecamere e la propria firma sotto i provvedimenti del suo ministero: capire quel che firma non le è richiesto e tanto meno deve essere d’accordo con quel che dice. Basta che dica e firmi quel che deve, disciplinatamente, da brava scolaretta.

I tagli alla scuola pubblica non nascono dunque dalla sua testolina e, ci potete scommettere, da brava ragazza qual è, gli dispiace davvero per il triste destino dei precari che si troveranno improvvisamente senza lavoro; se solo ci potesse fare qualcosa, statene certi, lo farebbe.

Ad imporre questi tagli, per i quali si incolpa quel cattivone di Giulietto "il ragioniere" Tremonti, non sono certo solo le necessità di bilancio; a queste si potrebbe provvedere agendo altrove - dalle auto blu alla spesa sanitaria della regione Sicilia sono infiniti i tagli che si potrebbero e dovrebbero fare prima di toccare la scuola - e, orrore, che banalità, facendo pagare le tasse a chi non lo fa.

I tagli alla pubblica istruzione sono, prima d’ogni altra cosa, funzionali alla visione della società che hanno Berlusconi ed i suoi colonnelli.

Il Berlusconismo ha una base ideologica, al di là della fedeltà al Capo e al totale asservimento della politica ai suoi interessi; tale base è una visione semplificata e ridotta del reaganismo.

Un reaganismo degli straccioni rimodellato, per le proprie esigenze di conservazione, da una classe dirigente, fatta già di figli di ed amici di, che è perfettamente felice dentro ad uno dei paesi più ingiusti e con minor mobilità sociale del mondo che un tempo chiamavamo occidentale.

La scuola pubblica, perché sia elemento di conservazione e non motore di trasformazione della società, deve essere depotenziata; suo scopo non è, in questa visione del mondo, produrre le classi dirigenti di domani – a quelle ci pensa la scuola privata, per i figli di chi se la può permettere e che continueranno anche per questo motivo, a fare il lavoro dei padri – ma la massa dei consumatori / cittadini che per svolgere la loro funzione richiedono di una cultura minima – basta saper leggere gli slogan ed essere in grado di mettere una crocetta su una scheda elettorale – come quella che fornirà loro, continuando di questo passo, il nostro già povero e malridotto sistema scolastico.

Facile trovare, in certe idee coltivate un tempo oltreoceano, il modello di tale tipo di società; da un lato una classe dirigente relativamente colta e preparata – e a volte coltissima e preparatissima – forgiata dalle scuole private e dall’altro lato, costretto a rimanersene al suo posto dalla propria stessa ignoranza, un ceto popolare al limite dell’analfabetismo, messo in grado, dalla scuola pubblica, solo di svolgere mansioni semplici come quelle richieste, nella società post – industriale idealizzata dai deliri degli anni 80, alla massa di lavoratori.

Una società divisa, insomma, tra avvocati e rivoltatori di hamburger.

Non ci si rende conto che l’Italia, a prescindere da qualunque considerazione etica o politica, non può permettersi, se vuole restare un paese del primo mondo, una simile economia.

La nostra mancanza di materie prime e la nostra posizione periferica, rispetto alle capitali anglosassoni del sistema finanziario, ci costringono a restare un paese di produttori. Di più ancora, per mantenere le nostre quote di mercato e continuare pagare stipendi decenti ai nostri lavoratori, dobbiamo produrre beni di altissima qualità; dobbiamo essere, in quel che facciamo, tra i migliori del mondo.

La cultura, non solo tecnica, non serve solo a realizzare gadget elettronici o i prodotti che abitualmente associamo all’alta tecnologia; serve a fare, bene, proprio di tutto.

Un mio amico mi ha mandato un hard disk pieno di programmi televisivi italiani. Tra le altre cose ho visto, con i miei figli, che mi sforzo di crescere anche italofoni, qualche puntata della serie Coliandro, che mi è piaciuta assai e, per tornare al tema, un documentario presentato da Piero Angela, in cui veniva spiegato come l’Olanda riesca ad esportare nel nostro paese 30.000 tonnellate di pomodori l’anno.

Sì: l’Olanda esporta pomodori in Italia. Come? Producendoli in serre che sembrano uscire da un film di fantascienza, dove tutto è regolato per avere la massima resa e l’energia è utilizzata nel più intelligente dei modi. Se si ha cultura si possono far crescere, a prezzi competitivi, pomodori pur dovendo riscaldarli ed illuminarli artificialmente; senza cultura, senza saper fare, si può arrivare a produrre vini orribili, come si faceva qualche decennio fa in alcune zone del nostro paese, pur avendo a disposizione climi e terreni perfetti per la vite.

Il nostro governo ha per la cultura il disprezzo di chi oltre a non esser colto non sa neppure fare nulla; di chi, oltre a non conoscere neppure due parole in croce d’inglese o un minimo di matematica, non sa neppure piantare un chiodo dritto.

Chiunque si sia ritrovato ad avere a che fare con il mondo della produzione sa benissimo quante conoscenze servano per fare le cose; quanta chimica, fisica, ma anche storia dell’arte e cultura in genere ci sia dietro ad un bel mobile o a un bel paio di scarpe. Serve cultura, come ci insegno gli olandesi, anche solo per coltivare i pomodori, se si vuole che incontrino il favore dei consumatori sui mercati internazionali.

Abbiamo affidato il governo dell’Italia a un branco d’incompetenti con una visione fumettistica della società e dell’economia.

Gente che non ha mai lavorato e che del lavoro nulla sa; nobilotti di provincia che guardano al modo del lavoro attraverso le lenti deformanti di una ricostruzione della realtà, la loro, simile a quella che operavano, ad uso dei potenti di allora, certi pittori di genere del nostro sei-settecento.

Sognano un popolo ignorante e felice, quello del Todeschini o del Pitocchetto, perché per loro il lavoro quello è: pura oleografia.

Non hanno capito che nel mondo d’oggi, come quello d’allora e di sempre, essere ignoranti vuol dire essere poveri e disperati; vuol dire fare dell’Italia un paese che dovrà competere sui mercati internazionali solo con la più miserabile delle armi: abbassando il costo del lavoro.

Il modo più facile di farlo per una classe dirigente senza idee; il modo più sicuro per diventare come il Vietnam o la Cambogia. O come le repubbliche delle banane del Sud America che fu, ma solo se saremo fortunati.

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