L’Europa deve accogliere la Turchia per la pace, per il dialogo, per interesse

par fabiobartoli
martedì 28 dicembre 2010

Il negoziato per l’ammissione della Turchia alla Comunità Europea ha subito un serio rallentamento tanto da deludere i cittadini di quel Paese che avevano sostenuto con entusiasmo l’adesione. Oggi gli scettici ingrossano le loro fila. Ai Governi europei valutare se una Turchia fuori dalla CEE rappresenta una scelta coerente e conveniente per lo sviluppo e la pace del Medio Oriente.

Dopo l’assalto dell’esercito di Tel Aviv alla Mavi Marmara, la nave degli attivisti che si opponevano al blocco di Gaza, la Turchia è scomparsa dalle prime pagine dei principali giornali europei ed americani. Perché? E che relazione ha tutto ciò con il processo d’integrazione della Turchia nella CE? Sono i turchi che stanno perdendo interesse all’adesione o - come sostengono alcuni osservatori – sono gli europei che non assumono decisioni adeguate allontanandola da Bruxelles?

L’immagine della Turchia di oggi non ha niente a che vedere con la Turchia che siglò nel 1963 il primo accordo di cooperazione con l’Unione Europea così come è un Paese assai diverso da quello che nel 2005 avviò le trattative ufficiali per integrarsi alla CE.

Qualche cifra spiega la situazione attuale del Paese: La Turchia ha 72 milioni di abitanti, un reddito pro-capite di 6.660€ annui. Nel 2010 il PIL è cresciuto del 7% e l’inflazione è ferma al 6,3%. Giova ricordare che negli anni ’90 era del 75%. La disoccupazione è scesa al 10% mentre il debito pubblico è pari al 45% del Pil (Ad es. quello dell’Italia sfiora il 118%)

Con questi numeri un analista economico occidentale ha definito la Turchia come “La Cina d’Europa” dato che il suo tasso di crescita è il più alto dell’area Ocse. E allora cosa impedisce alla Turchia una piena integrazione in Europa? Le difficoltà principali risiedono proprio nella sua impetuosa crescita economica così come nel suo recente attivismo in politica estera. Da sempre la Turchia è la cerniera tra Europa e Asia e la sua posizione strategica è stata essenziale anche durante la guerra fredda quando, assieme alla Norvegia, era il solo Paese della Nato, alla quale aveva aderito fin dal 1952, a confinare con l’URSS. La politica estera di Ankara ha ricevuto un forte impulso soprattutto in Medio Oriente, nei Balcani e perfino in Africa. Non c’è dubbio che la vittoria alle elezioni politiche del 2002 dell’Akp (Partito del popolo e dello sviluppo) seppure caratterizzato da posizioni islamico-moderate, ha spostato l’iniziativa diplomatica nel senso di una maggiore solidarietà musulmana. Non sono mancati errori in questo senso ed una maggiore prudenza nella difesa di posizioni solidali alla causa palestinese avrebbero evitato un coinvolgimento diretto del governo turco. Del resto va detto che se Israele non avesse sparato ed ucciso nove attivisti turchi, l’incidente avrebbe avuto bel altro rilievo.

Questa non è stata l’unica posizione scomoda assunta dal governo del Premier Erdogan che avrebbe potuto evitare un atteggiamento troppo comprensivo per il presidente sudanese Al Bashir accusato di genocidio e crimini contro l’umanità. Tuttavia le reazioni occidentali lasciano perplessi per tempismo e intensità. Infatti certe accuse (mosse specialmente da Francia e Germania) di avere appoggiato con il Brasile il programma nucleare iraniano non giustificano la censura della posizione turca arrivata a mettere in dubbio il suo schieramento occidentale critica che nessuno ha pensato di rivolgere a Lula. Non bisogna dimenticare gli umori del popolo (il 99,8% di religione musulmana e di confessione sunnita) e questo probabilmente spiega alcune posizioni ufficiali del Governo di Ankara.

Da un punto di vista economico sembra incomprensibile una posizione europea che faccia a meno dell’economia più vitale tra quelle accolte nell’Unione o sul punto di esserlo. Ad un’analisi attenta non può sfuggire che la struttura economica del Paese è stabile, con un sistema bancario solido dimostrato anche dai settori trainanti come quello manifatturiero che produce automobili, elettrodomestici, cemento, scarpe ovvero il grande sviluppo dell’edilizia residenziale e delle costruzioni delle grandi opere pubbliche. Del resto il Paese non può contare sulle materie prime ed è costretto ad un’economia di trasformazione.

L’Europa deve quindi decidere se i vantaggi dell’inclusione della Turchia possono essere messi in discussione da aspetti suppur seri come la questione cipriota, ma non irrisolvibili e comunque non tali da giustificare 5 anni di trattative che hanno prodotto magri risultati. Inoltre emarginare la Turchia significa perdere ogni influenza sui Paesi ad Est dei suoi confini e sul Medio Oriente dove viceversa Ankara può giocare un ruolo di mediazione tra Israele ed i Paesi arabi della regione.

La questione non è discutere l’ccidentalità della Turchia, la questione è evitare la marginalizzazione di un Paese che se dovesse scivolare su posizioni fondamentaliste allontanerebbe per sempre una prospettiva di pace e dialogo con quell’area del mondo politicamente esplosiva. In questa prospettiva non bisogna dimenticare il ruolo giocato dall’esercito da sempre elemento in grado di condizionare la vita democratica. La Turchia ha il più grande esercito al mondo a parte gli Stati Uniti. Il suo schieramento è sempre stato occidentale. All’Europa conviene che continui ad essere così. 


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