L’Afghanistan delle stragi
par Enrico Campofreda
martedì 24 novembre 2020
Nelle ricostruzioni a posteriori, del resto quest’inchiesta s’è appena conclusa, prende corpo l’idea che quei, forse all’epoca definiti ‘danni collaterali’, che erano corpi in carne e ossa poi ridotti in cadaveri, vennero massacrati per avviare alla guerra reclute.
Versare sangue per fare sangue, non a caso la pratica veniva definita “sanguinamento”. La macelleria è quella afghana. Vestivano i panni del boia divise australiane aggregate alla Nato, gli Special Air Service, non i mercenari col tempo sempre più utilizzati, ma militari di carriera sotto la direzione statunitense. Diventavano capri espiatori i contadini della provincia centro-meridionale dell’Uruzgan. Saifullah, Bismillah e decine di simili finiti sparati in testa, in petto, alle spalle più o meno come i martiri delle Ardeatine, solo in numero più ridotto: trentanove. Rivelazioni frutto delle testimonianze acquisite dai responsabili di una Commissione sui Diritti Umani, che sono state utilizzate nell’inchiesta aperta dalle Forze armate di Canberra nei confronti dei propri corpi inviati a sostegno della guerra voluta da George W. Bush e proseguita da Barack Obama. L’epoca dei fatti s’aggira attorno al 2005. Ma talune ‘operazioni speciali’ ed extraordinary rendition sono proseguite anche oltre, durante la prima amministrazione del “presidente della trasformazione”, un cambiamento che la politica estera americana ha solo parzialmente conosciuto. Non sul fronte afghano, dove il ripensamento attorno agli “scarponi sul terreno”, preludio del rientro di truppe che erano giunte a 100.000 unità, è una conseguenza delle ripetute battute d’arresto della campagna militare Usa nei territori occupati.
Enrico Campofreda