Khalid Sheikh Mohammed, Guantanamo e il processo di Norimberga

par Francesco Finucci
martedì 29 gennaio 2013

La sostituzione della parola “tortura” con “tecnica potenziata d’interrogatorio” è un’estensione di una logica politically correct: una violenza bruta praticata dallo stato è resa pubblicamente accettabile quando il linguaggio è soggetto a cambiamento”, questo Zlavoj Zizek sul Guardian. L’oggetto delle parole di Zizek è il film Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow. Non nuova a giustificazioni della foreign policy americana - a dire il vero piuttosto puerili - sulla Bigelow pesa infatti una ricodificazione della violenza tra nazioni. Se infatti la violenza è potere, allora nelle intercapedini nascoste dell’uso della forza può annidarsi una pressione che concorre a mantenerci tutti fuori dall’acqua, quindi vivi. L’anomalia della più pura violazione dell’etica comune al fine di mantenere una comunità sulla quale questa etica possa sussistere è allora al centro di un dispositivo di normalizzazione: “La tortura salva delle vite? Forse, ma sicuramente perde anime - e la sua più oscena giustificazione è dichiarare che un vero eroe è pronto a sacrificare la propria anima per salvare le vite dei suoi compatrioti. La normalizzazione della tortura in Zero Dark Thirty è un segno del vuoto morale al quale ci stiamo gradualmente avvicinando. Se c’è qualche dubbio al riguardo, provate ad immaginare un grande film di Hollywood raffigurante la tortura in una tale maniera 20 anni fa. Sarebbe impensabile“.

Molte vicende hanno colpito il famigerato carcere di Guantanamo. Tutte amabili prediche dei diritti umani, naturalmente. Fino a quando un prigioniero illustre vi entra, assieme ad alcuni suoi fantomatici colleghi. L’ospite è Khalid Sheikh Mohammed (KSM per amici ed americani comuni). Il motivo che ne fa più degli anonimi fantasmi incappucciati della baia è l’accusa che gli pende sul capo: essere la mentre dietro quello che nell’immaginario USA è divenuto il 9/11, l’undici settembre. Origina in questo modo quello che Il Secolo XIX ha definito giustamente “il processo del secolo“. Pochi precedenti hanno infatti ottenuto l’importanza del processo Khalid Sheikh Mohammad vs. USA. Gli unici precedenti seriamente paragonabili sono il Processo di Norimberga e quello di Gerusalemme. Allora si giudicavano i nemici dell’umanità, gli sconfitti di un’apocalittica guerra contro tutto ciò per cui si riteneva giusto combattere. Era di conseguenza un imputato che dal proprio patibolo non vedeva che folle in attesa di vederne la testa mozzata. La rigenerazione era lì a portata di mano, e ciononostante Robert Jackson - procuratore generale da parte americana - trovò nel mezzo delle carte qualche istanza in eccesso per quel sanguinario verdetto. Uomini fiduciosi di poter comandare sull’intero creato erano ora alla sbarra. Ma quale giustizia avrebbe vigilato sui vincitori e sul fucile carico di prove che avevano in mano? Quale potere avrebbe controbilanciato l’intrinseco completo dominio dei destini di nome Göring, Speer, Eichmann?

Con l’orrore dei campi di sterminio si annebbiava così il sottile confine tra prova e voce: “Il tribunale non richiederà prova di fatti pubblicamente noti, ma potrà tenere notifica giuridica di ciò“, perché ad essere celebrato a Norimberga non era il compiersi di un processo, quanto il manifestarsi splendente e terribile di una colpevolezza di per se stessa evidente. Nulla di differente era infatti accettabile. Era quindi sugli artefici del processo al male che si scaricava il peso di legittimare il disperato intervento chemioterapico di una società che, giunta al collasso, tentava l’ultima strada: la formattazione. Lo stesso accade nel momento in cui KSM entra a Guantanamo. Dieci anni di guerra, la totale ridefinizione di un intero ethos pubblico -quello americano- cadono direttamente tra le mani di coloro che sono chiamati a giudicare del demonio.

È allora che le voci diventano prove (qui e qui). Prove la cui estorsione si trasforma nella più pura necessità di sopravvivenza. Un cortocircuito nel quale il caso Mohammed viene stritolato, non senza conseguenze. “Come stupirsi che il misterioso KSM inghiottito dal gulag caraibico abbia confessato, dopo cotanto supplizio, di aver fatto “tutto quello di cui è accusata al-Qa’ida, dalla A alla Z”? Ha perfino confessato di aver progettato un attentato a un grattacielo che in realtà non esiste, a Seattle. Nella lista delle sue pseudo-imprese c’è l’attentato al WTC di New York del 1993, la strage in discoteca di Bali, la decapitazione del giornalista Daniel Pearl, e naturalmente gli attentati dell’11 settembre 2001. Il coordinamento logistico dell’operazione più grandiosa della storia del terrorismo avveniva a distanza - secondo questa versione - e si affidava sul campo a un gruppo di ragazzetti indisciplinati e malaccorti, islamisti disposti a sacrificare niente meno che la propria vita per un intransigente ideale jihadista, ma inspiegabilmente dediti al noleggio di escort con ritmi debosciati da premier italianoscrive Pino Cabras su MegaChipPerché se non c’è forma alcuna di deterrente alla violenza se non altra violenza, allora Guantanamo ne è un pieno messaggio affidato al mare della storia. Un sofisticato complesso di torture è infatti originato dalla guerra al terrore: l’esperienza maturata dalla CIA in ambiti quali la resistenza al rovesciamento dello Shah in Iran ha permesso di sviluppare metodi d’interrogatorio secondo un principio ben noto già agli inquisitori, quello di non rompere ossa né lacerare la carne. La ABC - tra tanti altri - ha stilato quello che appare un vero vademecum dell’estrazione di informazioni.

The Attention Grab: l’interrogatore afferra energicamente il davanti della maglietta del prigioniero e lo scuote.
Attention Slap: Uno schiaffo a mano aperta teso a causare dolore e scatenare paura.
The Belly Slap: un duro schiaffo a mano aperta allo stomaco. Lo scopo è causare dolore, ma non lesioni interne. Dottori consultati hanno avvisato di non dare pugni, i quali possono causare danni interni persistenti.
Long Time Standing: questa tecnica è descritta come tra le più efficaci. I prigionieri sono forzati a stare, incappucciati e con i lori piedi incatenati ad una vite attaccata al pavimento per più di quaranta ore. Lo sfinimento e la deprivazione del sonno sono efficaci nell’ottenere confessioni.


The Cold Cell: il prigioniero è lasciato nudo in una cella tenuta attorno ai 50 gradi. Mentre è nella cella il prigioniero è innaffiato con acqua fredda.
Water Boarding: il prigioniero è legato ad un piano inclinato, i piedi alzati e la testa leggermente sotto i piedi. Del cellophane è avvolto sulla faccia del prigioniero e dell’acqua viene versata sopra di lui. Inevitabilmente, i colpi di un riflesso da soffocamento e una terrificante paura di affogare porta ad una pressocché istantanea supplica di fermare il trattamento.

L’immaginario scatenato dal solo pensiero di queste pratiche può essere scacciato come un brutto ricordo, lasciando che il tempo lo eroda inesorabilmente dietro i cappucci senza nome. Se invece è proprio KSM a subirle allora a nulla servono le parole di denuncia della tortura pronunciate da Obama, specie se l’invito rivolto al popolo americano è ad impegnarsi per “guardare avanti”. Come amaramente sottolineato da Andrea Prasow, nulla di tutto questo compete a portarci più in là, ma al massimo ci assicura l’impunità del giusto che massacra, ma per una buona ragione.

Sottoponendo il nemico degli uomini ad una sommaria giustizia (capace di far vergognare ed allontanare anche due pubblici ministeri) può portare con sé conseguenze molto spiacevoli. Khalid Mohammed, come a suo tempo Göring, ha utilizzato in pieno queste armi gentilmente messe a disposizione dai suoi carnefici. Il punto è che KSM non è poi così Göring, e quindi le sue parole quando arrivano giungono fino al cuore della politica di cui l’occidente ha fatto oggetto il resto del mondo. Quanto un terrorista internazionale, un mostro capace di uccidere più di 2500 persone in un sol colpo dichiara che “il vostro sangue non è fatto di oro e il nostro di acqua. Siamo tutti esseri umani” il nostro animo non può che barcollare, pur per un singolo momento. Passando per un solo momento - uno solo - al di là del bene e del male, dove un morto è un solo morto, non può giungerci nuova una infausta verità: “Quando il governo si sente triste per la morte o l’uccisione delle 3000 persone che sono stata uccise l’undici settembre, noi anche dovremmo sentirci dispiaciuti che il governo americano che è stato rappresentato dal pubblico ministero e da altri abbia ucciso migliaia di persone, milioni. [...] Il presidente può prendere qualcuno e gettarlo nel mare sotto il nome della sicurezza nazionale e così può anche regolare uccisioni sotto il nome della sicurezza nazionale dei cittadini americani“.

Di fronte infatti alle ormai molteplici guerre intraprese dall’occidente e alle macerie fumanti che questa esportazione del conflitto ha contribuito a creare allora è più difficile accettare che un criminale internazionale venga giudicato dal tribunale di uno stato che -non meno degli altri- perlomeno è “stato canaglia” quando ritiene, magari in buona fede, di dover difendere se stesso e i propri cittadini da una minaccia esterna. Pensare poi che basterebbe una firma sullo Statuto di Roma, accettando così l’autorità della Corte Penale Internazionale di certo non aiuta una propria e realistica autostima dell’Occidente. Ciò non a scanso delle responsabilità derivanti dall’atto terroristico in sé, quanto a concorrere ad un futuro nel quale non ci dovremo più vergognare ed abbassare gli occhi di fronte a queste parole, facendo del terrorista Mohammed un pazzo isolato, non un pazzo con dentro le schegge di un orrore frammentato e nascosto. Tant’è che assieme ad un terrorista - Adil Hadi al Jazairi Bin Hamlili - probabilmente legato all’MI6 britannico e ai servizi canadesi (con i primi a conoscenza delle torture di Guantanamo) il campo detiene molti di quei soggetti che poi del regime di illegalità e terrore che vige nella comunità internazionale saranno simboli, e magari martiri.

Tra queste facce c’è quella di Majid Kahn. Così ne parla Andrea Prasow: “Quando mercoledì Majid Khan entrò nel cavernoso complesso legale di spedizione a Guantanamo, ci fu un palpabile senso di sorpresa. Questa era la prima volta che appariva in pubblico dal suo arresto in Pakistan nel 2003, ma nonostante molti altri detenuti che erano apparsi di fronte alla commissione nella tuta della prigione e con una lunga barba, Kahn, 32 anni, era relativamente ben rasato, con il pizzetto e capelli tagliati corti. Portava una tuta scura, maglietta bianca e una cravatta rosso scuro; parlava un inglese quasi perfetto avendo trascorso la sua adolescenza nella suburbia di Baltimora, Maryland“. L’aspetto è quello del tanto beneamato buon figlio della grande nazione, cresciuto nell’ideologia della libertà e prosperità del sogno americano. L’effetto di una immagine di questo tipo sulla psicologia collettiva è profondo: da una parte scollega il terrorismo da uno schematismo consolidato e soprattutto riconoscibile; dall’altra lo riporta nei ranghi di un soggetto fondamentalmente riconducibile alle lotte filmico-giudiziarie tanto amate dal pubblico degli States, quelle pellicole nelle quali l’innocente vittima della più palese delle ingiustizie viene salvata da un sistema che, pur sotto molti ingranaggi, continua a funzionare. Il dubbio è lì, nascosto e subdolo, ma il dubbio è un lusso che una nazione raccolta in giudizio non può permettersi. Se il nemico è in casa la fede non può vacillare.

È in questo momento che l’analisi comparativa di Richard Dicker, un viaggio tra Norimberga e Guantanamo, così come l’immersione di Mattathias Schwartz in Camp Justice emergono come elementi fondamentali per capire davvero il significato degli eventi che stanno facendo dell’Occidente e dell’Oriente due giganti destinati al conflitto: “Ciò che ho scritto qui… non voglio fare di me stesso un eroe, quando dico che sono responsabile di questo o quello. Ma voi siete soldati. Sapete molto bene che ci sono linguaggi per ogni guerra… se l’America, se vogliono invadere l’Iraq, non manderanno a Saddam rose o baci. Mandano un bombardamento… così quando abbiamo fatto ogni guerra contro l’America siamo sciacalli che combattono nella notte… come considerate George Washington un eroe, i musulmani, molti di loro, stanno considerando Osama Bin Laden. Sta facendo la stessa cosa. Sta solamente combattendo… quando dico che non sono felice che tremila persone sono state uccise in America. Io mi sento dispiaciuto perfino. Non mi piace uccidere bambini… uccidere, come nel Cristianesimo, Ebraismo, e Islam, è proibito. Ma ci sono eccezioni alla regola quando stai uccidendo persone in Iraq. Voi dite “dobbiamo farlo”. Non ci piace Saddam. Ma questo è la maniera di trattare con Saddam. State dicendo la stessa cosa. Lo stesso linguaggio che usate voi, io lo uso“.

Il punto non è definire di chi sia la colpa, perché non c’è spazio per l’innocenza durante un conflitto. Il punto è invece che un sistema concentrazionario viene oggi alimentato e sostenuto da una strategia di terrore che permea ormai la comunità internazionale. “Gulag” definiva Cabras Guantanamo, e non posso sentirmi più così distante da una definizione di questo tipo. Un campo di concentramento diventa necessario nel momento in cui una società riconosce al suo interno l’esistenza di elementi estranei e potenzialmente fatali. Indipendentemente dal fatto che ciò sia vero o no, una quarantena viene istituita perché la normalità possa rinascere - in questo caso dopo lo shock collettivo del 9/11. Di campo di sterminio non si tratta, perché lo scopo non è eliminare ma piegare perché il campo possa essere traslato dal proprio a quello del nemico (la politica estera americana ne è un esempio piuttosto convincente, temo). È tuttavia inutile sottolineare come tale coltura di morti suicidi porti a disanimare le società, una tinta della relazione con lo straniero più subdola del nazionalismo, perché non si riconosce che nel più basilare istinto di protezione del prossimo, distorto fino a diventare il principio d’azione per l’aggressione dell’altro. La società umana non può più vivere di questo processo erosivo. L’illusione della pace intesa non come sforzo di cooperazione ma negazione del conflitto non ci sta aiutando a sopravvivere, ma anzi ci sta uccidendo dall’interno. Prova ne siano i conflitti che si stanno scatenando, mentre latita l’ONU. Mentre latita l’essere umano.

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