Kashimir insanguinato, soldati indiani sotto tiro
par Enrico Campofreda
lunedì 19 settembre 2016
Un agguato con diciassette militari uccisi riaccende la tensione fra India e Pakistan. Le vittime sono soldati indiani della base di Uri, attaccati da un commando di quattro uomini che è stato poi eliminato dai rinforzi indiani. La struttura si trova a ridosso d’una zona cuscinetto d’oltre trenta chilometri che divide le due nazioni per il conteso Kashmir, regione ampia e montuosa che sovrasta lo stato indiano e che continua a essere nelle mire pakistane. E pure cinesi. Storia antica, risalente al dissolversi del Raj britannico, ma tuttora viva. Una storia intrisa di sangue, soprattutto fra le comunità pakistana e indiana coi loro governi che aggiungono tensioni nazionali e religiose alle smanie di supremazia politico-economica. L’area rivendica una sua autonomia attraverso politici locali, che devono fare i conti coi colossi in competizione e con tutti i loro giochi palesi e occulti. I commenti all’assalto da parte di New Delhi sono durissimi: il responsabile delle operazioni militari, generale Dalbir Singh, ha additato i “terroristi stranieri con marchio pakistano”, mentre il premier Modi promette ai concittadini che “non lascerà impunito un attacco deprecabile e vile”, non dicendolo ma facendo intendere che i manovratori occulti sono i leadership politici e militari del Paese attiguo e rivale.
Nel luglio scorso proteste e scontri erano rimontati pesantemente. La gente di molti villaggi kashmiri s’era opposta alle forze dell’ordine indiane, imitando la guerriglia inscenata dai separatisti nella cittadina di Srinagar. Inoltre un episodio era risultato devastante: l’uccisione di Muzaffar Wani, leader degli Hizbul mujaheddin, che sono i ribelli locali sospettati di aiuti pakistani. Da quel momento molti ragazzi si son trovati a dar manforte ai militanti della formazione attiva dagli anni Novanta, il periodo in cui il conflitto separatista aveva rinfiammato la valle. Wani, ventidue anni, veniva venerato come un politico antagonista a tutto tondo, dalle azioni militanti (alcuni sostengono non violente, sebbene lui stesso si facesse ritrarre a imbracciare un kalashnikov) a quelle di propaganda in giro fra la popolazione. L’aneddotica sul giovane leader racconta che non si facesse mancare una presenza virtuale: le sue riflessioni e gli appelli sul web riscuotevano un gran seguito sui social media. Ma al di là dell’emotività suscitata dalla sua dipartita occorre notare che il conflitto ha ripreso quota da quando Narendra Modi è salito al potere. Con lui l’ultranazionalismo indù del Bharatiya Janata Party scuote la vita interna e le ferite aperte come quella del Kashmir sanguinano e fanno sanguinare.
Enrico Campofreda