Italiaffondando. La salvezza è solo nella Politica

par Daniel di Schuler
mercoledì 21 marzo 2012

La verità è che il nostro paese e la sua società sono tanto peculiari, e tanto complessi, da rendere illusorio pensare che possano uscire dal pantano in cui si sono ficcati grazie a poche e semplici misure, tratte, per di più, esclusivamente da uno dei due  classici ricettari della destra o della sinistra.

L’Italia, dati OCSE alla mano, è, con gli Stati Uniti, il più ingiusto tra i paesi sviluppati. Il reddito e la ricchezza vi sono distribuiti, per capirci, più iniquamente che nell’Inghilterra post-tatcheriana e la mobilità sociale è pressoché inesistente.

Detto questo, e considerato che i dipendenti italiani, che hanno gli orari di lavoro più lunghi del mondo, sono tra i meno pagati, pare evidente che il paese abbia bisogno di tutto tranne che di una politica di “destra”.

Gli stessi dati di fatto, ci dicono anche del completo fallimento della “sinistra” italiana, (incapace, anche quando si è trovata a governare, di contrastare l’accumulazione indiscriminata di ricchezza e di aprire la nostra società), come pure del tradimento, portato a termine dai sindacati, degli interessi generali dei lavoratori. Sindacati che anche oggi sventolano i soliti stracci (la difesa dell’ articolo 18, che protegge solo il 20% dei lavoratori del settore privato e che, ad ogni modo, non garantisce, come è ovvio che sia, “il posto di lavoro”; se un’azienda non ce la fa chiude. Punto), ma che non si sognano di ripensare alle strategie, evidentemente inefficaci, fin qui adottate.

L’Italia, d’altra parte, non è solo vittima, come e certo più di tanti paesi, della crisi finanziaria di questi anni: ha smesso di crescere fisiologicamente già negli anni ’70 e avrebbe dovuto iniziare a rivedere già allora il proprio modello di sviluppo.

Non lo ha fatto per molte ragioni ma, non ultima, per l’incapacità della sua imprenditoria di mettersi nelle condizioni di competere alla pari, senza il vantaggio di una forza lavoro sottopagata, sui mercati internazionali. Tra le molte stupidaggini dette in questi anni, poche sono state più assurde del refrain di confindustria: “Dobbiamo contenere il costo del lavoro”: come molti altri degli slogan che scandiscono la nostra vita pubblica, pareva riferirsi ad un altro paese e non all’Italia, dove i salari reali stavano precipitando e il mercato interno si stava contraendo.

Questa incapacità di guardare all’Italia e alla sua società per quel che sono è anche il principale difetto di chi, ovviamente criticando le misure pure minimali introdotte dal governo Monti, sogna di trasformare il paese da un giorno all’altro, con un tocco di bacchetta magica, dimenticandosi che è abitato dagli stessi italiani che fino a ieri hanno votato per Berlusconi e votano Lega; dagli stessi perenni conservatori, per non dire reazionari, che  pur divisi in mille gilde (e ci sono, eccome, gilde e corporazioni “di sinistra”), sono prontissimi a scatenare delle mezze rivoluzioni se vedono toccati i loro interessi di bottega.

La verità è che il nostro paese e la sua società sono tanto peculiari, e tanto complessi, da rendere illusorio pensare che possano uscire dal pantano in cui si sono ficcati grazie a poche e semplici misure tratte, per di più, esclusivamente da uno dei due  classici ricettari della “destra” o della “sinistra”.

Dopo decenni in cui la nostra politica si è ridotta ad essere gestione dell’esistente, in cui non è stata altro che spartizione del potere e dei benefici che ne derivano, all’Italia non serve una politica di questa o quella parte, quanto una Politica: una visione del bene comune concretizzata in un progetto da realizzare  (non in tempi brevi e, ad ogni modo, nell’immediato, scontentando molti)  con la collaborazione della maggioranza dei cittadini.

Per arrivare a questo possiamo porci come obiettivo quei paesi del nostro continente che meglio hanno saputo affrontare la sfida della globalizzazione; che hanno saputo diventare competitivi, restando più giusti ed equi di quanto il nostro sia mai stato.

Obiettivo, ma solo parzialmente modello; possiamo arrivare ad essere simili alla Danimarca, ma non siamo la Danimarca e dobbiamo trovare una nostra strada, attraverso prove ed errori, per combinare competitività ed equità.

Quel che è certo è che non possiamo illuderci di salvarci (non è un’espressione melodrammatica; stiamo perdendo posizioni in tutti i campi e da anni. In molti settori non siamo più, già ora, un paese del primo mondo) senza un minimo sforzo da parte di tutti; pretendendo, come fanno i reazionari d’ogni colore, che a cambiare, e a pagare i conti del cambiamento, siano gli altri.


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