Italia: economia, salari e potere di acquisto

par La bottega del Barbieri
venerdì 29 dicembre 2023

L’economia non cresce, i sindacati perdono potere di contrattazione e i salari potere di acquisto

di Emiliano Gentili e Federico Giusti

 

Stando ai dati Ocse, con l’odierna legislazione chi è entrato da poco nel mercato del lavoro andrà in pensione a 71 anni di età. L’estensione dell’anzianità lavorativa necessaria per il pensionamento, inoltre, con le regole attuali diventa anche una necessità per poter maturare un assegno previdenziale che non sia da fame.

Da alcune ricerche pubblicate a metà gennaio (dal centro studi di Confindustria alla Confcommercio, dal rapporto Istat a quello Inapp e altre ancora, che troverete nelle note finali) si evince il grave ritardo dell’economia italiana rispetto ad altri paesi a capitalismo avanzato. Un ritardo che ha prodotto la riduzione del potere di acquisto della forza lavoro da 40 anni ad oggi e il progressivo smantellamento del sistema di welfare, ormai inadeguato ai reali bisogni.

Basti pensare che una delle proposte più gettonate, fra quelle al momento in circolazione, parla esplicitamente di ridurre le risorse destinate al sistema previdenziale pubblico per rafforzare la previdenza integrativa, non al fine di rafforzare la tutela degli ex-lavoratori anziani ma di sgravare il bilancio dell’INPS. La previdenza integrativa, del resto, in definitiva ai lavoratori costa di più, visto che per avere in cambio una pensioncina da aggiungere al magro assegno previdenziale pubblico debbono rinunciare a quote dei loro salari e, un domani, anche al Tfr.

In Italia il reddito familiare netto – che è la somma delle entrate del nucleo familiare al netto delle imposte, ossia il denaro a disposizione – è al di sotto della media Ocse di quasi 3000 €.

Solamente il 58% della popolazione in età lavorativa, cioè quella tra i 15 e i 64 anni, ha un lavoro retribuito, e anche in questo siamo al di sotto della media OCSE di almeno 8 punti percentuali.

La disoccupazione raggiunge quasi il 5%, rispetto a una media Ocse che oscilla attorno all’1,3%. Il reddito da lavoro medio annuo, invece, è pari a 37.769 USD, quando la media OCSE arriva a 49.165 USD.

Sempre nel nostro Paese, in caso di disoccupazione i lavoratori vanno incontro a una sensibile perdita di salario, maggiore rispetto a quanto accade in altri paesi Ue: se ad esempio in Spagna hanno accresciuto la platea dei beneficiari della indennità di disoccupazione e l’importo dell’assegno percepito, in Italia hanno distrutto il Reddito di Cittadinanza, sostituendolo con nuove misure che determinano una forte riduzione sia dell’importo del sussidio che della platea dei beneficiari1.

Se vogliamo rispondere a una domanda reiterata nel tempo, ossia fornire spiegazioni sulla consueta e persistente arrendevolezza dei sindacati maggiormente rappresentativi, non sbaglieremmo a dire che la mancata difesa di sanità e previdenza pubblica è spiegabile non solo per via della natura subalterna e concertativa di queste sigle, ma anche per la presenza di interessi nella co-gestione di sanità e previdenza integrativa.

Per quanto concerne il tasso di occupazione, infine, una considerazione preliminare: con “occupati” ci si intende riferire a «le persone che, durante la settimana di riferimento, hanno lavorato per almeno un’ora a fini di retribuzione o di profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti». Quando si dice che aumenta l’occupazione, perciò, si prende in esame un dato veramente discutibile: avere un lavoro, oggi, non significa poter emergere dalla condizione di precarietà e di miseria, in assenza di un reddito stabile che vada ben oltre la soglia di povertà relativa. Il Governo, poi, non spiega che l’occupazione è cresciuta maggiormente nei settori caratterizzati da “lavoro povero”, quindi dove minore è il valore aggiunto (ad esempio alcuni ambiti del terziario e della logistica, i servizi di cura, le pulizie).

Resta il fatto che la produttività dell’industria italiana nel 2022 è calata dello 0,7%, nonostante un leggero aumento delle ore lavorate dopo anni di flessione. Di conseguenza la crisi del nostro paese potrebbe essere anche rappresentata dal fatto che peggiorano le condizioni retributive e di vita della popolazione, pur lavorando, questa, di più.

La manovra di Bilancio, in discussione in Parlamento, vede rinnovati il taglio al cuneo fiscale (del quale beneficeranno soprattutto le imprese) e la riduzione ai minimi termini delle tasse sui premi di produttività dentro la contrattazione di secondo livello. Queste erano richieste storiche delle associazioni datoriali per accrescere i salari solo con il ricorso ai finanziamenti statali e per indebolire il contratto nazionale conquistando, a livello aziendale, incrementi della produttività a costo zero. Confindustria non è pienamente soddisfatta dei risultati ottenuti e chiede al Governo di accordare maggiori aiuti alle imprese e alla crescita, giudicando la ripresa salariale del tutto insufficiente per incrementare la domanda e favorire la ripresa dell’economia.

Quanto poi al mondo della scuola, è evidente che si stia costruendo una pubblica istruzione sempre più vicina alle finalità capitalistiche, erogando un sapere funzionale al mondo delle imprese, organizzato (e misurato!) sulla base di competenze predefinite e inadeguate, privilegiando lo sviluppo di un pensiero convergente e logico-deduttivo, a scapito dell’intuizione, della percezione globale degli argomenti didattici e della realtà in cui viviamo, della divergenza e del pensiero critico, della trasversalità disciplinare e quindi, infine, anche di quello spessore umanistico che per decenni è stato il vanto di un’Italia che si consolava così per le proprie insufficienze sul piano dei diritti economici e sociali.

Fra l’altro, il 63% degli adulti di età compresa tra i 25 e i 64 anni ha completato gli studi secondari superiori, percentuale inferiore alla media OCSE, del 79%. Il numero dei diplomati e laureati in Italia continua ad essere assai basso, se confrontato con resto d’Europa. L’abbandono scolastico nelle scuole superiori e l’abbandono dell’Università prima del completamento del corso di laurea sono, in fondo, anche e soprattutto il risultato dei disinvestimenti degli ultimi anni, del caro-vita e della impossibilità di mantenere i figli all’Università (soprattutto se fuori sede), nonché dell’abbassamento della qualità dell’istruzione e della crescente delegittimazione della scuola pubblica e degli insegnanti. Siamo certi che le continue controriforme dei programmi e dei percorsi di studio universitari (ad esempio il 3+2) o il numero chiuso per l’accesso ad innumerevoli facoltà siano stati utili a far uscire studenti più preparati? E al contempo il numero chiuso causa la carenza di laureati in determinate discipline e da qui il ricorso, ad esempio in sanità, a interinali e cooperative di servizi.

Ora che abbiamo velocemente tracciato un quadro d’insieme, ecco alcune, parziali, considerazioni conclusive:

Bibliografia

https://www.inapp.gov.it/pubblicazioni/rapporto/edizioni-pubblicate/rapporto-inapp-2023

1

- Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera: Menzogne e verità sulla cancellazione del Reddito di Cittadinanza, https://www.infoaut.org/approfondim... .

L’IMMAGINE – scelta dalla redazione – è “rubata” ad Altan: se qualcuno che legge avesse davvero visto un capitalismo minimamente etico ce ne dia notizia


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