Italia e Spagna alla prova dei mercati finanziari
par Libero Mercato
giovedì 14 febbraio 2013
Gli scandali e le tensioni politiche soffiano sull'aumento dello spread e sulle incertezze della Borsa. Due paesi a confronto con gli stessi problemi: la mancanza di un governo forte.
"I mercati finanziari si muovono per conto proprio, non sono influenzati dalla politica", è un ragionamento che nelle ultime settimane il candidato al futuro Ministero dell'Economia, Silvio Berlusconi, ha più volte tirato fuori per difendere lo stallo del suo governo culminato nel rischio default del novembre 2011.
Storia conosciuta, che testimonia (se fosse ancora necessario) quanto in realtà gli operatori di Borsa e gli analisti finanziari seguino con molta attenzione le vicende politiche negli Stati sovrani, soprattutto di grandi paesi industriali come l'Italia, centrali nella definizione di una cornice europea solida e sostenibile.
Non è un caso quindi (solo una certa propaganda elettorale può ignorarlo) che in attesa dell'esito del voto del 24 e 25 febbraio, i mercati evidenzino segnali di nervosismo verso i due paesi che in questo momento danno di sé un'immagine di maggiore precarietà ed incertezza: la Spagna e, appunto, l'Italia.
Partiamo dai cugini iberici, dove lo scandalo emerso dalle presunti tangenti versate al Partito Popolare stanno mettendo in notevole difficoltà la presidenza Rajoy, mentre i dati economici non offrono grandi spunti di ottimismo.
Il debito pubblico è quasi raddoppiato negli ultimi anni, dal 53,9% del Pil nel 2009 (fonte Commissione europea, ndr) al 92,7% previsto nel 2013 fino al 97,1% nel 2014. Il deficit è pari all'8% del Pil nel 2012, previsto al 6% nel 2013 ed al 6,4% nel 2014, ben lontano dal pareggio di bilancio. Inoltre la disoccupazione è salita al 26%, con una produzione industriale in calo del 6,9% in un anno insieme alle vendite al dettaglio, scese di un preoccupante 10,2%. A questi dati, infine, si aggiunge la flessione del Pil: -1,4% previsto per l'anno in corso. Con i conti pubblici fuori controllo ed un'economia in stallo, ciò di cui avrebbe bisogno la Spagna è senza dubbio un governo solido, non certo le tangenti e gli scandali interni che tengono allerta gli investitori.
L'Italia, dal canto suo, se la passa meglio dei cugini iberici su diversi fronti, ma resta comunque la "sorvegliata speciale" in Europa. I nostri punti di forza sono indiscutibili: un sistema industriale diversificato ed una ricchezza privata tra le più alte al mondo (quasi 8.000 miliardi detenuti tra banche e società finanziarie) insieme ad un bilancio pubblico saldamente in avanzo primario.
Anche le nostre storiche debolezze sono inattaccabili: 23 anni di scarsa crescita (dal 1990 il Pil ha avuto un incremento inferiore all'1% medio annuo, il più basso tra i 31 Paesi maggiormente industrializzati del mondo). Investiamo nel sistema scolastico il 2% di Pil in meno della media europea, abbiamo la peggiore occupazione femminile, per non parlare dell'enormità del debito pubblico (che preclude la possibilità di finanziare la crescita con nuovo debito) ed una corruzione endemica che ogni anno la Corte dei Conti cita come gravissimo ostacolo allo sviluppo economico generale.
L'Italia, insomma, è un paese con il motore scarico, debole nelle strutture interne e con un futuro ancora incerto. I mercati finanziari lo sanno e giudicano la nostra credibilità anche sulla tenuta delle istituzioni nel medio-lungo periodo. In questo momento preferiscono stare alla porta a sbirciare, all'occorrenza riducendo un po' le posizioni quando la confusione aumenta. Perché mai comprare un titolo di Stato o investire in un Paese dalla giustizia incerta, una burocrazia asfissiante ed una illegalità diffusa?
Per questo è quanto mai necessario eleggere un governo forte e stabile, che riesca a durare per un'intera legislatura, in grado di condurre un'azione riformatrice incisiva, che sappia andare oltre la mera ricerca del consenso popolare, e soprattutto che non si limiti a promesse sfarzose, palliativi o ricette miracolose, a cui spesso, purtroppo, siamo abituati in campagna elettorale. Come l'illusione che la politica nazionale non interessi i mercati mondiali.