Israele: le elezioni, la colonizzazione e le abitazioni

par Francesco Finucci
lunedì 31 dicembre 2012

Nuove elezioni attendono al varco la politica israeliana. La strategia fondamentale dei partiti che intendono entrare nella Knesset già inizia a vertere sulle tematiche chiave dello stato della costa est del Mediterraneo. Da una parte il fronte riaperto con la Palestina, dall’altro il rapporto con il Libano, ma anche la ridefinizione degli equilibri (e delle alleanze) nel Medioriente.

Il prossimo 22 gennaio gli israeliani saranno chiamati alle urne. Il voto è stato anticipato lo scorso ottobre, proprio mentre l’attuale premier Benjamin Netanyahu sembra non avere rivali. Dopo aver frantumato il partito di centro (Kadima), Netanyahu ha infatti di fronte un partito laburista diviso al proprio interno da scelte imbarazzanti e dall’avvicinamento proprio al Likud (il partito dell’attuale premier). Tutto questo potrebbe comportare - in un’ottica dialettica della politica - un’ulteriore escalation nei rapporti con l’Autorità Nazionale Palestinese. Nulla di più lontano dalla realtà. Israele è uno stato in guerra, è come tutti gli stati in guerra non ha proprio intenzione di recedere. Di fronte a questo le contrapposizioni ideologiche sono bazzeccole. È infatti proprio al Partito Laburista, in particolare a Shelly Yacimovich, che si imputa l’annullamento dei seggi dedicati alle minoranze, nonché l’allontanamento delle frange di estrema sinistra. La posizione nei confronti dei territori sotto controllo palestinese non sembra quindi essere in questione.

Non è solo il rapporto con la Palestina il problema. Dall’altra parte del confine nord Hezbollah si sta riarmando. Nel sud del Libano, sotto controllo del partito sciita, Hezbollah avrebbe a disposizione un arsenale di 50000 missili. Almeno questa la dichiarazione di Ron Prosor, Ambasciatore israeliano all’ONU, in linea con la recente instabilità del paese. La guerra civile in Siria poi giunge a complicare la questione, dato l’assenso unanime attorno alla possibilità di un utilizzo di armi chimiche da parte di Assad. Segnalato come il punto di non ritorno per un intervento USA, questo non può non riportare Israele ad una nuova strategia. Così almeno è stato interpretato il vertice tra Netanyahu e il re Abdallah di Giordania. L’ipotesi più credibile è che Netanyahu intenda richiedere ad Abdallah una sostanziale neutralità, al fine di assicurare l’intervento israeliano. Se si valuta a fondo la situazione interna, però, in gioco potrebbe esserci anche una forma di pressione nei confronti dell’Autorità Palestinese, in particolare del Golan e della West Bank, schiacciati tra Giordania e Israele.

L’Autorità Palestinese ha infatti recentemente ottenuto il riconoscimento da parte dell’ONU quale stato osservatore. Come non manca di sottolineare il giornale israeliano Haaretz, da ciò deriva la facoltà di relazionarsi in maniera paritaria con altri soggetti di diritto internazionale, tra cui la Corte Penale Internazionale. Questo ha fatto infuriare naturalmente Israele, ma soprattutto ne ha minato la possibilità di agire indisturbato nel territorio palestinese. Perché esercitare un potere significa poter sottoporre al terrore i propri nemici (Noam Chomsky, Power and Terror). Nel trito battibecco tra democrats e repubblicani, Chomsky lo ha sottolineato anni fa attaccando la politica proprio di Israele. Ma tant’è, la conoscenza (di Chomsky) non è potere, ma anzi il potere (quello dell’ONU) è potere, quindi solo oggi è teoricamente possibile perseguire i crimini delle forze militari di Netanyahu.

Mentre l’Autorità Palestinese mette in moto le proprie valutazioni, la strategia elaborata da Netanyahu è quella di fondare nuove colonie nei territori abitati da palestinesi. Se qualcosa ci può (sempre teoricamente) insegnare la storia della ricostruzione de L’Aquila, è come l’autorità che edifica abitazioni per la propria popolazione ne entra in possesso. Quando infatti un leader si sostituisce all’impersonalità della macchina statale ad indicare la proprietà del domicilio di una parte della società civile, indica con forza che la porzione più intima dell’esistenza di quegli uomini e di quelle donne è propria. Potere e Terrore, ancora, sulla scia di Chomsky, perché alla certezza del proprio luogo di vita si sostituisce la minaccia di una espropriazione. Un filo rosso che lega il destino del leader e degli abitanti di quella casa che non è più tale. Anche se poi nulla accade, Netanyahu, come Berlusconi, ne guadagna un discreto bacino elettorale anche se il metodo usato è dei più spregevoli.

Di più, se la zona è quella di Beit Safafa, aggiunge al proprio bottino quello di acquistare una roccaforte nel bel mezzo di un territorio ostile così diviso irrimediabilmente in due. Tutta colpa di Netanyahu e Lieberman? Difficile immaginarlo, così come è difficile immaginare quanto ardua possa essere la scelta di dover spostare la propria residenza dalla zona più ricca di Gerusalemme e quella più povera. Certo, si pone fine alla frustrante condizione, a quel tarlo in testa di avere una promessa che non si accetta da più di 2000 anni. Non dev’essere facile, constatando l’importanza di colui dal quale tale promessa proviene; l’importante è quindi accettare e fare i bagagli per casa di qualcun altro.Tale promessa di mistico ha poco, piuttosto ha di politico. Ci lascia quindi un succoso argomento con cui alimentare qualche battibecco tra atlantisti e anti-atlantisti. Tutti ci guadagnano, insomma, e allora è difficile capire perché ci si lamenti. Chi vuole davvero la pace?

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