Israele, la guerra e la non-vittoria su Hamas

par Fabio Della Pergola
venerdì 1 dicembre 2023

Le ipotetiche conclusioni del conflitto erano tre, dopo l’azione di Hamas del 7 ottobre – dieci volte i morti dell’attacco terroristico al Bataclan, ma fatte le debite proporzioni fra i due paesi (la popolazione israeliana è un settimo di quella francese), equivalente a 72 Bataclan in un solo giorno. E ovviamente dopo la prevedibile, durissima reazione israeliana.

Tutte e tre sul piatto, fino a ieri. Oggi è ben più arduo dirlo.

La prima prevedeva un rapidissimo allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente, con attacco concentrico allo stato ebraico da parte dei miliziani di Hamas dalla striscia di Gaza, di quelli di Hezbollah dal Libano, di altre sigle jihadiste supportate dall’Iran dalla Siria e, naturalmente, dai supporter palestinesi della Cisgiordania. Migliaia di razzi e missili in contemporanea avrebbero saturato le difese causando enormi distruzioni, un numero molto alto di vittime militari e civili e il blocco dell’economia dello stato ebraico. La reazione israeliana avrebbe devastato il Libano, oltre che Gaza, causato migliaia di morti fra i palestinesi, i libanesi e i miliziani provenienti dalla Siria e forse anche dalla Giordania. L’Iran stesso avrebbe potuto inserirsi nello scontro con migliaia di missili balistici per evitare il collasso dei suoi alleati più vicini ai confini di Israele. Con conseguenze imprevedibili.

Questo quadro, molto fosco e dalle prospettive drammaticamente preoccupanti, deve essere stato considerato assai credibile al Pentagono, tanto che gli Stati Uniti hanno dispiegato rapidamente una forza di dissuasione impressionante sia nel Mediterraneo orientale, sia nel Mar Rosso dove la marina è intervenuta a più riprese per abbattere missili e droni yemeniti diretti verso il sud di Israele.

Forse proprio per questa pronta reazione, ben poco di quanto era stato temuto si è poi realizzato davvero. Che Hamas abbia clamorosamente sbagliato i suoi calcoli, mal interpretando le intenzioni dei suoi alleati, o che essi si siano resi conto che la reazione americana andava presa molto sul serio, lo sapremo, forse, in un lontano futuro grazie al lavoro di qualche storico.

Per ora sappiamo solo che "alcuni giorni fa – come ha scritto Guido Olimpio sul Corriere – un esponente della fazione [Hamas] ha dichiarato al Financial Times: siamo stati sorpresi dalla reazione di Washington e non da quella di Israele. Pensavano che gli americani sarebbero rimasti “fuori”. Ma l’eccidio nei kibbutz e le minacce esterne (Iran, Hezbollah, milizie sciite) hanno superato la linea rossa».

La prima strada possibile, quella di uno scontro globale portatore di immani distruzioni e di un numero impressionante di morti, capace anche di mettere in serio pericolo l’esistenza stessa dello stato ebraico, è stata così bloccata (o è abortita) sul nascere.

La seconda possibile conclusione era che Israele costringesse Hamas alla resa, se non altro per evitare un costo immane al suo stesso popolo. Ma sappiamo che «Mahmoud al Zahar, uno dei leader di spicco di Hamas, ha detto che la Palestina non è altro che uno tassello di poco valore di fronte al più ampio progetto transglobale di governare il mondo islamico attraverso Hamas e l’Organizzazione internazionale dei Fratelli Musulmani». Sono parole del quotidiano saudita Okaz e c’è da crederci. Hamas sapeva bene che con la mattanza del 7 ottobre avrebbe superato una invalicabile linea rossa; e sapeva anche che la reazione sarebbe stata devastante. Ma questo non l’ha fermata. Anzi, un alto numero di “martiri” rientrava ampiamente nei suoi interessi strategici.

Tuttavia lo scontro diretto con Hamas è stato più limitato del previsto.

Nonostante le distruzioni e un numero imprecisato di morti (le cifre fornite, anch’esse arma di propaganda nelle mani del Ministero della Salute di Gaza cioè di Hamas, sono quel che sono) la presenza di oltre duecento ostaggi nei cunicoli di Gaza, la pressione dei loro familiari e quella internazionale, soprattutto americana, perché vengano contenute le perdite civili (quello israeliano è l‘unico esercito al mondo che avverte prima di colpire informando dove e quando lo farà, come riportato dalla BBC, emittente solitamente ben poco tenera con Israele) e la prassi islamista di farsi scudo con i civili, hanno limitato lo scontro diretto con i combattenti di Hamas (tra 15 e 40mila secondo alcune valutazioni) probabilmente asserragliati nei tunnel di Gaza city o di Khan Younis.

Poi la trattativa per lo scambio ostaggi/prigionieri palestinesi ha imposto uno stop alle azioni militari per i primi quattro giorni concordati, poi per un quinto, un sesto, un settimo… e vedremo se si trasformerà in un cessate il fuoco definitivo (almeno fino al prossimo round).

L’idea che alla fine, nonostante la volontà del governo e dell’opinione pubblica israeliani, si dovesse fermare l’attacco a Gaza si è velocemente diffusa fra le cancellerie occidentali, all’Onu e, soprattutto, alla Casa Bianca. Oltre cinquanta giorni di guerra sono il massimo accettabile se non si è una delle superpotenze globali. Solo loro possono fare quello che vogliono per tutto il tempo che vogliono o quasi. Usa e Russia l'hanno ampiamente dimostrato.

Partita con l’obiettivo di sradicare Hamas distruggendolo o costringendolo all’esilio, l’offensiva israeliana non ha certamente centrato l’obiettivo prioritario dichiarato fin da subito. E questo ci porta alla terza conclusione possibile.

Sostanzialmente Israele ha perso lo scontro tre volte in rapida successione: la prima volta dimostrando un’impreparazione a dir poco sconcertante per un paese che è sul piede di guerra fin dalla sua nascita. In secondo luogo ha perso la battaglia della propaganda passando in brevissimo tempo, nei sentimenti dell’opinione pubblica mondiale (che in Occidente influenza non poco le scelte governative), da vittima di una terribile strage a colpevole di una strage più grave (ma qui è evidente che tutti sanno dire che cosa Israele NON avrebbe dovuto fare, ma nessuno sa dire che cosa avrebbe potuto davvero fare in una situazione come quella post 7 ottobre). E per finire sembra non aver vinto sul campo la battaglia con un nemico che è rimasto praticamente inafferrabile mentre il tempo giocava a suo favore.

Le cose potrebbero cambiare con la fine della tregua, è chiaro, ma ad oggi - stanti i malumori americani sul proseguimento dell'offensiva - non si vede altra conclusione che questa. Il che ha evidentemente una ricaduta pesante sul governo di estrema destra guidato da un leader che, appena fermate le armi, sarà chiamato a rispondere di tante cose. Troppe perfino per uno come lui.

È chiaro che Hamas definendo “una vittoria” la strage del 7 ottobre sapeva quel che diceva.

Dimostrando di poter colpire al cuore lo stato ebraico, ne ha distrutto l’alone di inattaccabilità su cui si fondava la sua capacità di deterrenza. E se un attacco è stato possibile, altri ne potranno seguire, con i tempi e i modi della paziente guerra di lunga durata concepita dai leader palestinesi. Questo è il messaggio che è passato fra la gente di Gaza e della West bank, fra le folle arabe, fra i tanti emigrati che hanno esultato nei cortei di Londra o New York. Questo è il messaggio recepito dai leader arabi che hanno sottoscritto, o stavano per farlo, gli Accordi di Abramo con lo stato ebraico, adesso congelati.

«Dal Marocco all’Arabia Saudita, sarà ora più difficile spiegare le necessità della normalizzazione politica ed economica con Israele, a un’opinione araba che ha visto quelle immagini di una battaglia così inaspettatamente vittoriosa» scriveva un mese fa Ugo Tramballi.

La guerra per la liberazione della Palestina continua e può vincere. Ci credono.

Guerra non finalizzata - come vorrebbe la vulgata diffusa nella gauche occidentale - a liberare i territori al di là dei “confini” del ’67, pretesa fondata sul (sacrosanto) diritto palestinese ad avere un proprio stato accanto a quello ebraico, ma molto più prosaicamente a liberare l’intero territorio “from the river to the sea”, dal Giordano al mare. La liberazione della Palestina passa per l'eliminazione dall’esistenza stessa di Israele. Obiettivo chiarissimo, scritto nero su bianco nello statuto fondativo di Hamas, nelle parole dei suoi leader, in quelle dei leader di Hezbollah, in quelle di fuoco degli ayatollah iraniani, ribadite ancora una volta poche settimane fa a Riyad.

Questo obiettivo strategico, che rappresenta l'opinione prevalente fra i palestinesi secondo un sondaggio del 14 novembre, è il vero impedimento, l'ostacolo principale, a una soluzione duratura del conflitto.

Se Israele deve sparire, foss'anche alla fine dei tempi, di quale trattativa si può realisticamente parlare? E se non si può trattare che altro si può fare? Questo è il dilemma che i due contendenti saranno chiamati a sciogliere quando le armi taceranno. Il crollo prevedibile della destra attualmente al governo si tramuterà forse in un governo disposto a fare concessioni sui Territori, come fecero senza fortuna Barak nel 2000 e Olmert nel 2008, ma se, sull'onda del successo si dovesse imporre la logica dell'Armageddon finale propugnata da Hamas, chi ne pagherà le conseguenze più disastrose?

Gaza è lì a dimostrarlo.

Foto Utenriksdepartementet UD/Flickr

 

 

 


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