Israele e le guerre concentriche

par Fabio Della Pergola
martedì 16 aprile 2024

La tensione politica in Medio Oriente procede per cerchi concentrici.

Nel mezzo c’è l’annosa questione palestinese, il cerchio più piccolo, che non è altro che il detonatore indispensabile per innescare altri conflitti, ben più rilevanti, agli occhi di tutti gli attori sul campo, della situazione reale dei palestinesi stessi.

Il secondo cerchio riguarda Israele e i paesi arabi confinanti, ieri coinvolti nel panarabismo nasseriano sostenitore di un conflitto aperto con lo stato ebraico e oggi divisi fra quelli in rapporti di buona vicinanza (Egitto e Giordania) e quelli (Siria e Libano) ancora in stato di guerra latente fin dal 1948, mai terminata con un trattato di pace, ma costellata di episodi intermittenti di violenza. È un cerchio animato recentemente dalla politica degli accordi di Abramo che coinvolgono Israele e alcuni governi arabi, ma ben poco i governati di quei governi, simpatizzanti invece della causa palestinese.

Il terzo cerchio chiama in causa il panislamismo khomeinista di Teheran, determinato a imporre, sfruttando l’ostilità verso Israele, la propria egemonia sulle quelle stesse masse arabe lacerate fra la simpatia per chi incarna le speranze di una soluzione militare risolutiva della presenza ebraica in Medio Oriente e l’ostilità antica verso gli sciiti da parte dei sunniti.

Ed esiste anche un ulteriore quarto cerchio che si amplia fino al livello del confronto fra Occidente e tutto ciò che Occidente non è, o è solo in parte. La Russia e l’Iran incarnano l’ala più bellicosa. Più defilata, la Cina che si sta preparando a un confronto duro con gli Stati Uniti (e i suoi alleati asiatici) su Taiwan, ma che non può perdere l’accesso ai mercati occidentali. Si accodano a loro gli altri componenti dei Brics, India, Brasile e Sudafrica attori del vecchio terzomondismo ormai impegnato in un braccio di ferro sul piano strettamente economico con il primo mondo.

Tutti cerchi sono concentrici e legati gli uni agli altri perché causati da un'unica pietra gettata nello stagno (e la pietra potrebbe essere la buona vecchia rivoluzione francese che ha gettato le basi della modernità liberaldemocratica – discutibilissima, ma che dio ce la conservi – contro cui si scagliano a ogni piè sospinto tutti i reazionari del pianeta).

La drammatica mattanza del 7 ottobre perpetrata dai tagliagole di Hamas ha rappresentato il tentativo del movimento palestinese di uscire dall’impasse in cui loro stessi si sono cacciati impedendo negli anni qualsiasi accordo proposto dai laburisti (Barak 2000-2001) o dai centristi (Olmert 2008) dello stato ebraico e favorendo così uno spostamento a destra sempre più deciso dell’elettorato israeliano. Indispensabile per loro avere al governo di Israele una forza speculare per poter opporre, con una giustificazione che suonasse credibile, al disegno “biblico” dell’estrema destra teologico-nazionalista delle frange estremiste dei coloni, il loro antico e originale programma politico di “porre nel nulla” l’entità sionista (come scritto, nero su bianco, nel loro statuto fondativo del 1988).

Con quella azione, finalizzata a coinvolgere gli alleati sciiti in Libano e Siria, oltre che a sollevare la popolazione cisgiordana, Hamas si proponeva di mettersi alla testa di un nuovo movimento panarabo (ma sostenuto dall’Iran) capace di mettere realmente in difficoltà lo stato ebraico. Attaccandolo da nord e da sud e forse all’interno sia della West bank che dei suoi stessi confini grazie al supporto della popolazione arabo-israeliana, la strategia impostata e messa in atto con capacità tattiche inusitate e una brutalità impressionante, contava probabilmente anche nel supporto attivo, se fosse stato raggiunto un livello tale da far intuire qualche possibilità di collasso delle difese israeliane, delle masse arabe di Giordania ed Egitto. Un supporto di piazza tale da costringere quei governi (o i loro comandanti militari) a rompere gli indugi a unirsi alla battaglia finale contro il “cancro sionista”.

Le cose non sono andate come i dirigenti di Hamas probabilmente speravano grazie al deciso intervento americano che un dirigente palestinese ha poi definito “inaspettato”. Con due squadre navali, e il loro impressionante potere deterrente, Biden ha prontamente fatto capire a tutti che era meglio lasciar perdere qualsiasi velleità di scendere in campo. I deludenti (per i palestinesi) discorsi di Nasrallah hanno chiaramente fatto intendere che il messaggio era stato ricevuto e che, oltre a un certo numero di razzi sparati da Hezbollah tanto per salvare la faccia, il partito di Dio non si sarebbe esposto più di tanto. L’Iran si è immediatamente accodato ai suoi alleati libanesi dichiarando di non aver saputo niente di quello che Hamas stava cucinando. La durissima repressione di ogni volontà di movimento in Cisgiordania ha fatto il resto. Hamas è rimasta sola e gli abitanti di Gaza (qualunque sia il numero reale delle vittime civili della guerra) hanno pagato per l’ennesima volta lo sconcertante avventurismo suicida del movimento islamista.

Sta di fatto che il tentativo di allargare lo scontro fino al secondo o anche al terzo cerchio si è rivelato fallimentare. Fino al bombardamento israeliano del consolato iraniano a Damasco (ammesso che lo fosse, le notizie di stampa sono contraddittorie sulla definizione dell’edificio colpito) e dei generali dei pasdaran lì riuniti.

Il governo di Netanyahu deve aver deciso che riportare lo scontro sul terzo cerchio avrebbe risparmiato a Israele l’onere di dover rispondere (perfino ai suoi alleati più stretti) dell’andamento della guerra di Gaza e avrebbe anzi riallineato sia i paesi arabi più ostili a Teheran sia l’Occidente stesso in uno schieramento compatto in difesa dello stato ebraico in caso di reazione militare dell’Iran.

Solo così si spiega l’azzardo di quel bombardamento che tanto ha fatto infuriare il segretario dell’Onu Guterres per la violazione del diritto internazionale che protegge le sedi diplomatiche (come se sparare sui civili i razzi forniti dall’Iran ai suoi alleati libanesi fosse invece permesso dal diritto internazionale). E così infatti è stato: l’Iran non poteva non rispondere e ha risposto con una salva di droni e missili di vario tipo che la difesa israeliana ha intercettato con il contributo fattivo dei jet americani, inglesi e francesi ma anche con quello di Arabia saudita e Giordania. Unica vittima una bambina beduina colpita dalle schegge di un ordigno caduto nel Negev.

Riportare lo scontro lì dove Hamas voleva arrivare il 7 ottobre, si è rivelata azione spregiudicata e molto azzardata, ma – al momento – vincente. Da una situazione che, fino al bombardamento di Damasco, era win-win per Hamas (se Israele non risponde abbiamo vinto sul campo, se Israele risponde le nostre vittime ci faranno vincere la battaglia dell’immagine e dell’informazione) si è adesso assestata su un piano meno squilibrato. Israele ha incassato la reazione iraniana dimostrando una capacità militare difensiva eccellente e ha ricompattato attorno a sé le alleanze che lo stavano abbandonando per via della guerra di Gaza.

Il terzo cerchio dello scontro poteva essere quello del suo collasso e si è rivelato invece quello che ha messo in difficoltà i suoi avversari. Ora Israele dovrà decidere se e come giocare le prossime carte. Presumibilmente dovrà rispondere all’attacco iraniano, con l’accordo degli stati arabi consapevoli che loro non sarebbero mai stati in grado di difendersi da un attacco simile nel caso che l’Iran avesse intenzione di piegarli una volta per tutte. Hanno bisogno di Israele per difendere la propria autonomia e Israele lo sa.

Ma forse vorrà rispondere attaccando gli alleati di Teheran, non Teheran direttamente, cosa che Biden non vuole. La terza guerra del Libano sembra così delinearsi sempre più chiaramente. Del resto è dal 7 ottobre che Hezbollah colpisce il territorio israeliano partecipando di fatto alla guerra scatenata da Hamas. E, per quanto siano azioni più dimostrative che devastanti, Netanyahu i conti con loro li vuole fare se non altro per ridimensionare una volta per tutte il pericolo da nord dopo aver ridimensionato sostanzialmente quello da sud. E non si capisce perché non li dovrebbe fare quei conti. Anche se Hezbollah ha denti ben più affilati di quanti non ne abbia Hamas. Il rischio, molto serio, è che Beirut faccia la fine di Gaza.

Di tutto questo l’unico che finora si è avvantaggiato chiaramente è Putin, in Ucraina. Ma qui siamo sul quarto cerchio e lo scontro è ancora lontano dal vedere una sua fine. Se ne riparlerà dopo le elezioni americane: se vincerà di nuovo Biden la Russia sarà costretta ad abbandonare le sue speranze di impadronirsi della costa ucraina (e del Mar Nero), se vincerà Trump sarà possibile lo scambio: Ucraina alla Russia e luce verde di Mosca per far fuori il regime iraniano.

Foto Binary Koala/Flickr


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