Israele e Palestina: l’ipotesi binazionale

par Fabio Della Pergola
lunedì 9 aprile 2012

Amira Hass (nella foto) è una coraggiosa giornalista israeliana che vive a Ramallah nella West Bank (Territori Occupati o Territori Contesi, a seconda dei punti di vista); scrive su Haaretz e su altre testate, descrivendo il conflitto da “un punto di vista palestinese”.

E’ coraggiosa perché la sua posizione politica la porta quasi quotidianamente a scontrarsi con le verità ufficiali dello stato di Israele, ma anche a criticare nel passato, esponendosi pericolosamente, le politiche di Fatah.

Insomma una “fuori casta” senza peli sulla lingua, spessissimo criticata e osteggiata in patria, ma, pur essendo sostanzialmente solidale con la causa palestinese, non assimilabile al fronte dei duri e puri a prescindere.

Il suo ultimo articolo pubblicato su Internazionale di questo mese, dà conto di un fatto raro laggiù, perché parla di una Ong israeliana, la Zochrot, che vuole "far conoscere la Nakba agli israeliani", che sostiene il diritto al ritorno dei profughi palestinesi e propone la convivenza fra le due comunità in un unico stato. Vale a dire in uno stato a maggioranza ebraica con una robusta minoranza araba (ben maggiore dell'attuale 20%), ma - tenendo presenti i diversi tassi di sviluppo demografico fra i due gruppi etnici - destinato a diventare, nel giro di qualche decennio, uno stato a maggioranza araba con una robusta minoranza ebraica.

E’ evidente che una posizione del genere scardina alla base la logica del sionismo, cioè di quel movimento “risorgimentale”, nato a fine ottocento sulla falsariga di altri movimenti di liberazione nazionale europei, che ha ideato e promosso il nazionalismo ebraico.

Il sionismo si scontrò apertamente, da subito, sia con le tendenze internazionaliste di origine marxista che con le istanze religiose più ortodosse di cui esistono ancora tracce nelle sette oltranziste antisioniste tipo Neturei Karta o negli ultraortodossi promotori della discriminazione di genere che hanno fatto scandalo qualche mese fa cercando di imporre alle donne sedili separati nei bus o marciapiedi a sesso "alternato" nei loro quartieri, in opposizione alla legge dello stato.

Proponendo una entità statuale binazionale la Ong in questione si pone evidentemente in rotta di collisione sia con l’attuale governo e con tutti i partiti e partitini dell’estrema destra nazionalista o ultrareligiosa che lo sostengono, ma anche con la sinistra in cui le simpatie per l’idea del grande stato binazionale sono ormai ridotte a nicchie assolutamente minoritarie. Sono posizioni estreme che una società sostanzialmente in guerra da decenni non ama.

Anche il noto scrittore Abraham Yehoshua - una delle pupille della sinistra europea - qualche mese fa si oppose con radicale determinazione all’idea dell’ipotesi binazionale, che il perdurare dell’occupazione della West Bank - fra l'altro - porta ineluttabilmente con sé (ed è uno dei motivi cui ricorrono di solito gli israeliani contrari all'occupazione): "La pace con i palestinesi è cruciale, altrimenti finiremo con l'avere uno stato binazionale, scelta che non condivido. Certi ambienti palestinesi approvano l'idea di dividere uno Stato con noi, e sono convinto che se la destra israeliana si alleerà con essi per uno stato binazionale, sarà un disastro per entrambi i popoli".

Il “ritorno dei profughi”, uno dei cavalli di battaglia di Zochrot, è una richiesta che ormai viene posta, nei sempre più rari e infruttuosi incontri di trattativa, solo per una sorta di abitudine; giusto Hamas sembra non ammettere deroghe, ma con aspettative reali pari a zero. Gli israeliani non cederanno mai su questo punto - nonostante l'ipotesi ventilata da Yehoshua - proprio perché metterebbe a rischio la caratterizzazione “ebraica” dello stato (caratterizzazione etnica che attira su Israele molte accuse di razzismo, mai rivolte peraltro agli stati che si definiscono 'arabi' o 'islamici' senza che - curiosamente - ciò susciti alcuno scalpore).

Si potrebbe pensare perciò che quelle di Zochrot dovrebbero essere posizioni politiche viste con grande favore in ambito palestinese; ma non è andata così quando la Ong, su richiesta di un simpatizzante arabo, ha cercato di organizzare un evento a Ramallah, nei Territori.

Dopo prevedibili difficoltà, grazie alla comunità quacchera della città la questione sembrava andata in porto, ma appena dato l’annuncio su Facebook, ci racconta Amira Hass, pare che si sia “scatenato l’inferno”. Gruppi di giovani palestinesi si sono ribellati con commenti furibondi: “Se sono davvero dalla parte della Palestina dovrebbero andarsene da Israele” e “Se vogliono davvero venire a Ramallah dovranno passare sul mio cadavere”.

Il resoconto della giornalista israeliana finisce qui, senza commenti. Mi è sembrato di coglierci un fondo di amarezza, ma forse lei ha voluto solo evidenziare un aspetto ovvio: la soluzione al dramma palestinese non può provenire dall’altra parte della barricata, per quanto animata dalle migliori intenzioni. La perdita della faccia, che è perdita di dignità umana, a queste latitudini assume una dimensione di umiliazione che nessuno intende sopportare. Giustamente. Sta quindi ai palestinesi trovare una via d’uscita che salvi i loro diritti e, nello stesso tempo, la loro dignità. Nessuno, nemmeno un israeliano “buono”, può scippargliela.

Finora però hanno trovato solo - o meglio, la dirigenza dei vari movimenti politici palestinesi che si sono succeduti nel corso di decenni con la fattiva gestione esterna dei molti paesi arabi ed islamici che si sono interessati al problema palestinese per motivi spesso poco trasparenti - ha proposto solo la resistenza armata, la 'sparizione' del nemico come recita alla lettera lo statuto fondativo di Hamas; senza minimizzare naturalmente tutto l'attivismo israeliano nel provocare l'acuirsi degli scontri. La logica militarista avrebbe potuto portarli ad eliminare il problema, ma li ha invece trascinati in un tragico cul de sac in cui hanno perso tutto quello che, con un ragionevole compromesso, avrebbero potuto ottenere. Uno stato, più piccolo di quanto i nazionalisti degli anni venti, trenta o quaranta sognassero, ma autonomo, libero e orgogliosamente indipendente.

Ma avrebbero mai potuto sopportare la perdita senza combattere?

A parte le facili quanto scontate condanne del sionismo come "colonialismo" europeo tout-court che non hanno alcun senso se lette alla luce della tragica storia dell'ebraismo dell'ultimo secolo, la domanda che molti storici si fanno è se il conflitto fosse davvero inevitabile. La risposta è che non lo fosse, a patto che gli uni o gli altri o meglio entrambi, avessero rinunciato alla sovranità nazionale. Ma né gli ebrei, scampati - dopo secoli di rinuncia a pretese nazionalistiche - ad una persecuzione di proporzioni immani, né gli arabi, passati dal dominio ottomano a quello inglese, erano forse in grado di accettarlo. Quindi una qualche forma di conflitto probabilmente era davvero inevitabile.

Nel frattempo però l’India con la nonviolenza gandhiana ha raggiunto l’indipendenza e il Sudafrica di Mandela, riuscendo ad evitare le trappole di un bagno di sangue in cui avrebbe potuto facilmente cadere, si è liberato dell’apartheid. Quindi un'altra via d'uscita che non fosse quella militare forse era immaginabile, se qualcun altro l'ha immaginata.

Oggi, la politica palestinese sembra ingessata nell'eterna contrapposizione tra trattativisti alla Abu Mazen (che portano a casa pochi risultati) e i duri e puri della resistenza-offensiva alla Hamas (che a casa portano solo reazioni militari durissime).

Non sta meglio la politica israeliana dopo il sanguinoso conflitto (politicamente una sconfitta per l'esercito ebraico) del Libano del 2006, che agli occhi dell'opinione pubblica è chiaramente apparso come la dimostrazione che l'Iran - attraverso lo sciita Hezbollah - è già in guerra con loro. Gli spazi politici per una sinistra pacifista israeliana sembrano ridotti a niente o poco più. Anzi le ipotesi di frantumazione di Kadima sembrano indicare che anche il centrosinistra nel suo complesso vada verso le elezioni dell'autunno 2013 (salvo anticipazione impreviste) con prospettive decisamente negative.

E con questa destra al governo si direbbe ridotta a meno di zero anche la possibilità di una trattativa con i palestinesi, capace di produrre finora un sostanziale zero di risultati positivi.

La minaccia virtuale dell'atomica iraniana va ad aggravare una situazione già ampiamente e drammaticamente compromessa. Nonostante le parole di Günter Grass che Hareetz considera degne di attenzione anche se le definisce "esagerate" (in effetti Israele non ha mai espresso l'intenzione di "cancellare il popolo iraniano" come dice lo scrittore tedesco), non è molto condivisibile rovesciare il ruolo degli attori e negare che le minacce arrivano da Teheran fino dai tempi di Khomeini.

Come ha scritto Ugo Tramballi"...sembra chiaro che esista un appetito iraniano per un nucleare militare, capace di sollecitare l’altro appetito naturale israeliano per la soluzione militare di ogni problema".

Le minacce esterne hanno sempre aiutato la destra nazionalista ad affermarsi e la destra nazionalista non ha mai cessato di provocare le reazioni esterne.

E a pagare per questo gioco delle parti e per i contrapposti appetiti rischiano di essere di nuovo, come sempre, proprio quei palestinesi per i cui diritti - viene detto - si combatte.


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