Islanda, nel paese che non c’era

par Phastidio
martedì 23 aprile 2013

Il 27 aprile gli islandesi andranno alle urne per rinnovare il proprio parlamento. Nei sondaggi della vigilia, il paese felice della mitologia italica si prepara a buttar fuori dal governo i partiti che hanno gestito il “default controllato che non c’era”, ed a reinsediare al potere i partiti responsabili delle liberalizzazioni che hanno condotto alla ipertrofia del settore bancario, poi rovinosamente imploso. Perché la memoria corta pare non essere esclusiva solo dell’elettorato italiano, ed a quanto pare i motivi di scontento tra la popolazione restano acuti.

Le due maggiori forze di opposizione, il Partito Progressista ed il Partito dell’Indipendenza, sono accreditati dai sondaggi rispettivamente del 29,5 e 24,6 per cento delle intenzioni di voto, mentre i socialdemocratici della premier Johanna Sigurdardottir, che hanno gestito la crisi meritandosi gli elogi del Fondo Monetario Internazionale, otterrebbero solo il 21 per cento dei suffragi, assieme agli alleati del partito Verde di sinistra. La Sigurdardottir era subentrata a Geir H. Haarde, del Partito dell’Indipendenza, che era stato cacciato a furor di popolo dopo il default delle tre maggiori banche islandesi, e che è poi finito sotto processo per cattiva gestione dell’economia, suscitando gridolini di eccitazione tra gli altermondialisti di casa nostra.

Ma il malessere economico islandese resta profondo, e poggia soprattutto sui forti oneri sopportati dai mutuatari, che hanno un debito ipotecario complessivo equivalente a 11,3 miliardi di euro (su una economia che ha un Pil equivalente a circa 13 miliardi di dollari), l’80 per cento del quale è indicizzato ai prezzi al consumo, attualmente in crescita tendenziale del 4 per cento. Nel paese c’è quindi diffuso disagio, contrariamente a quanto credono i gonzi italiani, ed i partiti si muovono per promettere un minimo di sollievo ai cittadini, ad esempio vagheggiando tagli di tasse oppure (con esponenti dell’attuale opposizione) promettendo di abbattere di almeno il 20 per cento il valore dei mutui in essere, per alleggerire il peso sui debitori. E qui sorgono ovvi problemi.

Se si procede ad un writedown del valore dei mutui, le banche locali devono in qualche modo essere indennizzate. Diversamente, le ingenti perdite conseguenti alla manovra rischierebbero di destabilizzarle e richiedere l’ennesimo salvataggio pubblico, per evitare default. L’attuale opposizione propone quindi di finanziare l’abbattimento del valore dei mutui utilizzando parte dei crediti che gli investitori esteri hanno nelle banche islandesi fallite. E’ utile segnalare che una simile manovra apparirebbe come un atto ostile agli investitori internazionali, e potrebbe avere ripercussioni, legali e reputazionali.

Cosa stiamo intuendo, quindi, dalla situazione islandese? Allora, andando per ordine, per quanti si sono distratti:

  1. L’Islanda è stata per tre anni in assistenza del Fondo Monetario Internazionale;
  2. L’operazione di salvataggio del proprio sistema finanziario domestico è stata estremamente costosa per il contribuente;
  3. I controlli sui capitali, in vigore dal 2008 a mai allentati, stanno determinando una nuova bolla immobiliare, mentre i mutuatari, come detto, soffrono per il sistema di indicizzazione dei propri debiti, che sottrae quote crescenti di reddito disponibile e frena pesantemente la ripresa;
  4. L’Islanda ha evitato di svenarsi per pagare i creditori esteri, ma ha comunque pagato l’assicurazione sui depositi di non residenti, contrariamente alla vulgata italico-terzomondista;

Come si dovrebbe agevolmente notare, le cose non sono per nulla facili, a quelle latitudini. Se poi voi volete continuare a credere alle idiozie della mitologia finanziaria di casa nostra, padronissimi. Ah, e naturalmente in questo disastro l’euro non c’entra assolutamente nulla, in caso vi fosse sfuggito.


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